L’originale vicenda narrata in Ali di farfalle inizia con l’anziano Noè ancora rinchiuso nella sua grande arca, ma già proiettato in una sorta di nuova creazione: cadono infatti le ultime gocce di una pioggia non più torrenziale, poi le acque si ritirano, appare uno stupendo arcobaleno e uomini e animali si apprestano a moltiplicarsi e a ripopolare il mondo. Noè è in ottimi rapporti con Dio: gli parla e può ascoltarlo e ben comprenderlo, anche quando si sente dire: “Un giorno, quando la storia del mondo sarà alla fine, Io pianterò un nuovo giardino a Oriente, un luogo tanto grande da ospitare ogni specie di uomini e animali. Tutti torneranno a vivere in pace come fu all’alba dei tempi: il leone giocherà con l’agnello e i viventi vivranno per sempre senza conoscere la morte”. Noè si compiace di questa bella notizia, ma un po’ anche si allarma quando Dio gli affida il compito di trasmetterla a tutti gli animali, concedendogli la facoltà di parlare con loro: “Tu stesso porta la notizia. Di’ loro che quando saranno morti la loro anima vivrà e un giorno entreranno tutti nel mio giardino perché nulla andrà perduto di quanto sulla terra ha respirato”.
Noè ringrazia Dio e si attiva subito per portare la bella notizia, ma nell’arca – ahimè – non c’è già più nessun animale: vede le groppe delle zebre che si allontanano, gli uccelli come puntini persi nel cielo, impronte di zoccoli e zampe lasciati dai tanti quadrupedi che si sono già slanciati a sgranchirsi le gambe in una corsa liberatoria. Qui inizia la travagliata ricerca del buon vecchio, che non dispera tuttavia di portare a compimento la missione che Dio gli ha affidato. Le tartarughe, con il loro procedere molto lento, sono infatti ancora abbastanza vicine per essere raggiunte. Noè prova ad intendersi con loro, ma incappa una raffica di spassosi equivoci:
-Sono contento che siate ancora qua! /-Sarà lei un gran baccalà!
-Non avete capito… /-A chi scimunito?!
-Signora tartaruga, sono Noè /-Chi è?
Impossibile non perdere la pazienza, o almeno la speranza di potersi servire delle tartarughe per fare arrivare agli altri animali la notizia di una vita riservata anche a loro nel nuovo Eden della fine dei tempi. Noè però non demorde e vedrà riaccendersi le sue speranze (seguite però sempre – ahimè – da amare delusioni) nell’abbordare dapprima un fringuello, poi un asino, poi oche e galline, quindi pecore, rane, cicogne elefanti. Infine appaiono a Noè, all’improvviso, imprevedibili e meravigliosi, come “frecce che dalla terra volavano verso il cielo per poi tornare in mille giri sulla terra… una miriade di piccoli fiori con le ali”. Saranno forse loro che permetteranno a Noè di compiere la missione affidatagli dal Creatore?
Ali di farfalle è un libro semplice, profondo, divertente, vivacizzato da alcune pagine scritte in poesia, come quella sull’arcobaleno del primo capitolo:
Era un arco colorato / da lasciare senza fiato: / rosso vivo e vellutato, / poi arancio un po’ sfumato / giallo oro e verde prato, / quindi azzurro delicato…
(Gregorio Curto – 2023-11-01)
Il mago dei numeri / Hans Magnus Enzensberger. Torino, Einaudi, 1997
Roberto è un ragazzetto infastidito dagli esercizi che, a scuola, gli assegna il professore di matematica, soprannominato Mandibola, mentre di notte è ossessionato da brutti sogni: gli capita ad esempio, di trovarsi su uno scivolo che non finisce mai, oppure vede una bicicletta con ventiquattro rapporti, che sul più bello si volatilizza, o ancora si imbatte in un grosso pesce che si appresta ad inghiottirlo. Una notte però fa il primo di una serie di sogni di diverso tenore: gli appare un personaggio strano, che si presenta come “mago dei numeri” e lo introduce progressivamente in un mondo affascinante e pieno di misteri. Inizia a presentargli il numero uno (1), poi gli fa sapere che gli antichi Romani non conoscevano lo zero (0)… e via via lo conquista parlandogli di frazioni, di numeri che hanno una infinità di decimali, di quelli che lui chiama numeri principi, numeri bonaccioni, numeri triangolari. Nel sogno della decima notte il mago mostra a Roberto un pentagono che avvolge una stella e lo invita contare i nodi, le superfici e le linnee che compaiono al suo interno, prima di invogliarlo ad eseguire operazioni difficili, che danno come risultato numeri con una imprevedibile successione di cifre dopo la virgola.
A volte Roberto si scoraggia e dice al mago che non ne può più, ma a quel punto si risveglia e, quando lo strano personaggio riapparirà in un altro sogno, il ragazzetto sarà pronto per riprendere il cammino. Nella dodicesima ed ultima notte, il mago rivela il proprio nome e introduce il suo allievo in un gran palazzo, dove dimorano altri maghi molto più illustri di lui, provenienti da ogni parte del mondo. Dopo avere attraversato vari locali, Roberto e la sua guida “entrarono in una sala che era la cosa più grande che Roberto avesse mai visto, più grande di una cattedrale e più grande di un palazzetto dello sport, e molto, molto più bella. Le pareti erano ornate di mosaici con disegni sempre diversi. Una grande scalinata portava verso l’alto, così in alto che non se ne vedeva la fine. Su una specie di largo gradino c’era un trono d’oro, sul quale però non c’era nessuno”. Alcuni dei personaggi che abitano il grande palazzo sono molto anziani, come il greco Pitagora, che Roberto apprende essere stato il matematico che ha trovato come misurare precisamente la circonferenza e la superficie delle grosse torte che si mangiano in quel lussuoso ambiente.
La realtà pone poi Roberto nuovamente di fronte al professor Mandibola e ai suoi non graditi problemi. Potrà ora il ragazzetto affrontarli e risolverli con un altro animo e con nuove strategie?
Il mago dei numeri è un piacevole libro di narrativa, ma affascina anzitutto proprio perché, usando termini che non si usano a scuola, introduce alle curiosità, ai segreti e ai misteri della matematica.
(Gregorio Curto – 2023-10-)
In un breve arco di tempo (l’estate del 1993) e in un’unica città (Palermo) si svolge la vicenda narrata in Ciò che inferno non è, protagonista padre Pino Puglisi, chiamato scherzosamente dai suoi alunni 3P (soprannome che lui stesso non ritiene per nulla offensivo) e dai capi-mafia locali ’u parrinu.
A Palermo convivono fianco a fianco gli abitanti di due mondi: i benestanti dei quartieri eleganti e i disagiati di Brancaccio, in quartiere povero vessato dalla mafia. Don Pino è originario di Brancaccio, dove è tornato dopo alcuni anni, nei quali ha svolto il suo ministero sacerdotale altrove: insegna religione in un liceo ed impiega tutto il suo tempo e le sue forze, l’intelligenza e il cuore, per combattere le ingiustizie ed alleviare le pene della povera gente. Ha raccolto tanti bambini in un centro ricreativo chiamato Padre Nostro, dove i piccoli trovano ben altro che la semplice possibilità di giocare: possono infatti incontrare lui, don Pino, e - tramite lui – Gesù, un’amicizia, un conforto, un perdono insperato, un angolo di ‘ciò che inferno non è’.
Don Pino si batte inoltre perché a Brancaccio si possano costruire una scuola per gli adolescenti e un luogo di ritrovo e di formazione per gli adulti, utilizzando un vecchio palazzo, diventato da tempo il covo delle tresche dei mafiosi. “Da mesi sto cercando di farmi dare gli scantinati di questo palazzo. Sono del Comune, ma sono occupati e vengono usati per le cose peggiori” – confida a Federico, suo alunno, diciassettenne di una famiglia palermitana agiata. Degli abitanti di Brancaccio dice che vivono “come possono. C’è chi lavora in nero, se va bene, altrimenti contrabbando di sigarette, spaccio di droga, prostituzione… Molti sono agli arresti domiciliari, altri in carcere. Quasi tutti sono analfabeti, i bambini non vanno a scuola e imparano il lavoro dei genitori, qualunque sia. Il resto lo fa la strada”. Sembrerebbe un inferno, ma 3P ha ben chiaro che l’inferno non è dove, ma come sei: “Togli l’amore e avrai l’inferno… metti l‘amore e avrai ciò che inferno non è”, dice a Federico; e per questo, cioè per strappare dall’inferno chi poteva incontrare, lui stesso ha lottato fino al martirio: “Se nasci all’inferno hai bisogno di vedere almeno un frammento di ciò che inferno non è per concepire che esista altro. Per questo bisogna cominciare dai bambini”.
Un giorno don Pino invita Federico a venire a Brancaccio: potrà così dargli una mano a far giocare i bambini del Centro Padre Nostro. Federico accetta e pian piano – è lui stesso, nel romanzo, a narrare in prima persona le vicende che lo riguardano direttamente – viene travolto e conquistato dalla missione del suo insegnante di religione, fino a decidere di rinunciare al suo soggiorno-studio in Inghilterra (programmato per quell’estate del 1993), ad imbattersi nella diffidenza dei bambini del centro, a subire il furto del suo motorino e pesanti percosse dai nemici di Don Pino. ’U parrinu però non odia nessuno, neppure i mandanti o gli esecutori del delitto che porrà fine alla sua vita, ma non alla sua missione. Morirà infatti col sorriso sulle labbra, dopo avere mostrato a grandi e piccoli amore e dedizione incondizionati.
Le storie delle persone incontrate da 3P e da Federico si intrecciano in uno splendido drammatico arazzo… e sono le più varie e imprevedibili: le avventure del piccolo Francesco e di sua mamma; lo sconforto e le speranze della bambina con la bambola, che vuole raggiungere il papà ‘dove il mare tocca il cielo’ o ‘dove terminano i binari della ferrovia’; l’entusiasmo e la tenacia di Totò, che imparerà a suonare la chitarra di Manfredi, il fratello di Federico; il dramma di Giuseppe, che ruba le autoradio su commissione impostagli dal padre. Tra le giovani e le giovanissime ci sono la mamma di Francesco, che vuole un gran bene al suo bambino; Maria, aiutata in tutti i modi da don Pino perché smetta di prostituirsi; Serena, violentata e resa incinta da un mafioso; l’intraprendente e mite Lucia, regista dello spettacolo preparato per la festa del cinquantaseiesimo compleanno di 3P. Con tutti, ma come a ciascuno si addice, don Pino è amabile e risoluto. A Francesco dice un giorno che la solitudine che ha provato dopo aver preso a calci e ucciso un cane randagio è l’inferno: “l’inferno è tutte le volte che decidi di non amare o non puoi amare”. Poi gli suggerisce di chiedere perdono ‘a Gesù, e poi al cane’. “Francesco racconta del cane, e poi di quella volta che ha sputato al suo amico Antonio , di quando ha dato dei pugni a sua madre, ha rubato la bicicletta, ha bruciato due lucertole e la coda di un gatto, ha tirato le pietre a quelli dell’altra squadra e ha rotto la testa a un bambino”… e don Pino, dopo avergli chiesto ‘solo questo?’: “E io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Conclude poi, davanti allo stupore del bambino che gli chiede ‘Che hai fatto?’: “Io niente. Dio ha cancellato l’inferno. Quelle cose non sono mai esistite, cancellate”.
Federico è un poeta, innamorato del Petrarca, ma poi impererà ad apprezzare maggiormente Dante. La sua vena si esprime in alcuni componimenti (l’ultimo dedicato a Lucia), ma la poesia, nel romanzo, non è solo nei suoi versi, ma anche e soprattutto nelle mille metafore e similitudini che costellano la narrazione di D’Avenia, come quelle del mare, dei pensieri, della notte:
-Oggi il mare brilla così tanto: sembra che il sole gli abbia soffiato dentro
-Ma ci sono pensieri che non pensiamo, sono loro che pensano noi, come le parole delle canzoni che tornano in mente senza averle evocate
-La notte già inchiostra il mare e con calma accarezza l’immenso porto, le cui luci fanno eco alle prime stelle. Sembra che possa accadere qualunque cosa, una creatura uscire da quel liquido nero sotto forma di sirena, di tritone, di mostro marino.
(Gregorio Curto – 2023-09-07)
Le imprese dei cavalieri, che combattono per difendere gli oppressi e ristabilire la giustizia, e nondimeno il canto accompagnato dalla cetra, sono le grandi passioni di Tristano, che viene al mondo in circostanze drammatiche e si imbatte da giovane in una circostanza che decreta irreversibilmente la sua sorte.
Rimasto orfano di entrambi o genitori in tenera età, viene salvato da un servo che lo addestra alle armi facendone un prode cavaliere. Entrato poi al servizio di un suo zio, il Re Marco di Cornovaglia, Tristano si distingue nel duello con un gigante irlandese, chiamato Moroldo, che viene sconfitto. Re Marco ottiene così giustizia, poiché viene dispensato da un ingiusto accordo, che lo costringeva a consegnare come schiave numerose giovani donne al re delle giovani. Moroldo però ha combattuto in modo sleale, avvelenando la sua spada, con la quale ha ferito Tristano durante il duello. Questo spiega perché Tristano si indebolisca sempre più e non si possa veder risanata la sua ferita. Viene però salvato da Isotta dai capelli biondi, una principessa esperte in cure mediche e magiche, che gli dà da bere una pozione che in breve tempo rimette l’eroe in eccellenti condizioni di salute.
Dopo varie vicende l’irlandese Isotta raggiunge il castello di Cornovaglia, scelta dal Re come sua sposa. Si celebrano le nozze accompagnate da grandi festeggiamenti, banchetti e tornei, mentre accade l’evento nodale di tutta la vicenda: una pozione che fa innamorare, destinata in parte a Isotta e in parte al Re Marco, viene per errore bevuta da Tristano. Re Marco rimane all’oscuro di questo fatto, per questo soffre vedendo la sua sposa deperire quando lei si trova lontano dal suo amato; si mostra tuttavia comprensivo, resistendo alle pressioni di quattro baroni del suo regno, che vorrebbero far condannare e giustiziare Tristano, invidiosi del suo valore e del prestigio conferitogli dalle sue gesta.
Allontanatisi dal palazzo di Re Marco, Tristano e Isotta trascorrono diverse stagioni un fitto bosco, messi a dura prova dalla fame e dal freddo. Quando riterranno di doversi separare, potranno mai dimenticarsi l’uno dell’altra? Ad un cero punto della vicenda compare anche un’altra Isotta, detta dalle bianche mani, lei pure molto bella, come la sua omonima dai capelli biondi. Tristano non resta indifferente al suo fascino, ma potrà questo incontro segnare la sua vita, fino ad sopraffare il destino che gli è stato assegnando con la pozione che ha bevuto anni addietro?
Nella storia di Tristano e Isotta c’è tanto amore, puro nelle intenzioni ma sopraffatto da una sorte ineluttabile; c’è anche il valore di chi usa le armi per ristabilire il diritto contro chi vuole offendere e far prepotenze; la cattiveria degli invidiosi, ai quali viene riservata una fine ingloriosa; la bellezza della poesia e del canto, con i quali si celebrano le imprese cavalleresche o si cantano la gioia o la tristezza che procurano le alterne vicende della vita.
(Gregorio Curto – 2022-10-08)
La vicenda ha inizio quando Julian, il fratello Dick e la sorellina Anna apprendono dai genitori che trascorreranno un periodo di vacanza al mare, a Kirrin Bay, presso una famiglia di parenti, costituita dallo zio Quentin, la zia Fanny e la loro figlia Georgina. I ragazzi non si dimostrano in un primo tempo entusiasti di questo programma, specialmente perché ricordano lo zio Quentin come un tipo burbero e severo, che mette soggezione, sempre chiuso nel suo studio a lavorare. Della cugina Georgina sanno che ha undici anni, cioè la stessa età di Dick, un anno in più di Anne e un anno in meno di Julian. Sperano perciò che potranno fare amicizia e giocare con lei, ma in realtà si trovano davanti, almeno al primo impatto, una ragazzina a dir poco originale. É infatti anche lei, come il Padre Quentin, un tipo taciturno e solitario, che ama però la vita all'aria aperta, le attività dei maschi (piuttosto che le bambole e i bei vestiti) e l'avventura. Inoltre non pare affatto contenta di dover trascorrere le sue vacanze con i cugini e fin dal primo incontro con loro precisa che dovranno chiamarla George e non Georgina. La freddezza del primo impatto tra i tre fratelli e la cugina si scioglie però presto quando quest'ultima si rende conto che potrà averli come compagni di avventura, coinvolgendoli in una ispezione dell'ambiente circostante. Già al primo giorno della loro vacanza i ragazzetti vanno tutti insieme al mare e George mostra loro una spiaggia e degli scogli affascinanti, la sua barca a remi, un'isola (anch’essa “sua”) poco distante e totalmente disabitata, in cima alla quale si stagliano le rovine di un castello. La meraviglia e il desiderio di stringere amicizia con la cugina crescono poi in Julian, Dick e Anna, quando questa mostra loro, adagiato sul fondale marino nei pressi dell'isola, il relitto di un vascello di un suo avo, affondato secoli addietro, probabilmente con un bel carico di oro e altri beni preziosi. Il legame si rinsalda inoltre per la simpatia che nei cugini ospitati a Kirrin Bay suscita Tim, il cane al quale George è molto affezionata, ma che non può tenere in casa perché disturberebbe il lavoro di Quentin. Tim è un cane intelligente, coraggioso e intraprendente; per questo a pieno titolo può entrare nel sodalizio dei cugini e costituire con loro la "banda dei cinque".
Ed eccoci finalmente all'inizio dell'avventura. Durante la prima escursione in mare aperto la banda si imbatte in una devastante tempesta, che li costringe a ritardare il loro rientro a casa e li sorprende sollevando il relitto della nave dal fondale marino e scaraventandolo su una spiaggia dell'isola. Ci sarà veramente dell'oro o un tesoro nella nave affondata secoli addietro? E cosa mai nasconderanno le segrete del castello? Subito la banda dei cinque si mette all'opera e tutto sembrerà andare per il meglio fino alla comparsa sulla scena di un manipolo di filibustieri, che vorrebbero togliere alla famiglia di George ciò che legittimamente le spetta. Il finale a lieto fine si può intuire, ma sarà comunque sorprendente, non meno che le rocambolesche e spaventevoli avventure che dovranno affrontare i quattro ragazzi con il loro fidatissimo, coraggioso e abile Tim.
(Gregorio Curto – 2022-09-12)
“La musica in sé stessa era un atto di resistenza contro lo squallore, la menzogna e la morte”. Di ciò prende coscienza Maiti, nel momento in cui i militari nazisti smascherano la sua collaborazione alla resistenza francese. “Qualche mese più tardi” prosegue “avrei crudelmente scoperto che nonostante la loro impotenza nell’uccidere la musica, i carnefici potevano mutilare i suoi interpreti. Vittoria spietata per loro, crudele per me, ma vittoria solo parziale, malgrado tutto”, perché – e qui ricorda i musicisti da lei più amati – “la Germania non era soltanto Hitler, era anche, e più ancora, Bach e Beethoven. Il primo deformava l’umanità e sarebbe passato; i secondi, che la glorificavano, sarebbero rimasti”.
Il libro è il racconto, redatto in prima persona, della giovinezza di Maiti Girtanner, cittadina svizzera che sceglie di collaborare con gli uomini che organizzano la resistenza francese all’occupazione dell’esercito nazista. Maiti è una ragazza diciannovenne, abile pianista, che attende di completare i suoi studi. Quando trasferisce il suo domicilio in Francia, più precisamente a Bonnes, dove - in una villa chiamata Antica Dimora - vive con un nutrito gruppo di suoi familiari, viene a trovarsi nella condizione di poter nascondere e aiutare parecchi cittadini francesi ricercati dai tedeschi. Rocambolesche sono le fughe di individui, e a volte di intere famiglie, che Maiti accompagna oltre la linea di demarcazione, prendendosi gioco spesso dei soldati tedeschi, ma sempre col cuore in gola e con una gran paura. La giovane Girtanner non teme il confronto con gli ufficiali nazisti, che vengono ad occupare alcune stanza della Antica Dimora e spesso, con un intreccio di astuzie, cortesie e finzioni, ottiene piccoli favori a vantaggio di chi le ha chiesto di essere aiutato. Maiti fa un gran correre con la sua bicicletta, che le consente di portare a compimento missioni delicate, come consegnare documenti segreti o rubare timbri e carte geografiche dagli uffici degli militari nazisti.
La sua attività si fa più intensa quando si trasferisce a Parigi, ma proprio lì viene scoperta, arrestata, trasferita con altri detenuti politici a Hendaye-plage, una cittadina al limite estremo della Francia, prima della frontiera con la Spagna. Qui viene barbaramente percossa e mutilata da spietati aguzzini, comandati da un dottore di nome Leo, tanto che dopo la sua liberazione, avvenuta con un blitz organizzato dall’ambasciata e dalla Croce Rossa svizzere, prenderà presto coscienza di non essere più in grado di suonare il pianoforte. “Alcuni centri nervosi erano stati distrutti e non li avrei mai recuperati” scrive Maiti. “Non c’era dunque da ricostruire ciò che era stato distrutto, come si fa rimontando ad uno ad uno i mattoni di una casa crollata. Era semplicemente questione di costruire su fondamenta nuove, che non avevo scelto io”.
Maiti si rende conto di dover entrare in una “dinamica di abbandono”, potendosi vantare - qui cita San Paolo – non più della sua forza ma della sua debolezza. Rinuncia quindi definitivamente alla carriera artistica ed anche a crearsi una famiglia, quando sceglie – non senza essere passata da un lungo travaglio - di entrare nel terz’ordine domenicano e di esercitare privatamente la professione di insegnante di musica. “Un giorno decisi che non avrei più rimpianto ciò che ero stata o che sarei potuta diventare, ma avrei amato ciò che ero e cercato ciò che avrei dovuto essere. È stato un lungo viaggio, nulla è avvenuto dal giorno alla notte, ma questa è la condizione per una vera redenzione e allo stesso tempo il luogo di ogni battaglia”.
In questo lungo viaggio risalta più di ogni altra tappa il perdono accordato da Maiti al suo aguzzino, il dottore di nome Leo, che la raggiunge nel 1984 con una telefonata. Chiede di incontrarla; lei accetta e si sente dire: “Ho un cancro. L’ho appena saputo. Sono condannato. Il mio medico mi ha detto che non mi restano che sei mesi da vivere… Non ho mai dimenticato ciò che lei disse ai miei altri prigionieri riguardo la morte. Sono sempre rimasto stupito per il clima di speranza che lei aveva instaurato , anche se le vostre prospettive non erano per niente incoraggianti. Adesso ho paura della morte. Desidero capire meglio”. È così che Maiti può perdonare a chi le ha fatto tanto male e dare a lui conforto e speranza. Dopo aver messo Leo di fronte alle sue responsabilità, alla domanda “crede ci sia un posto per persone come me in paradiso?” risponde: “C’è posto per tutti quelli che, qualsiasi sia il peso del loro peccato, accettano di accogliere la misericordia di Dio. È per questo che Cristo ha donato la sua vita per noi. E se è salito fin sulla croce, è proprio perché il prezzo da pagare era elevato. Ma proprio perché Lui è salito fin là, possiamo avere fiducia. Durante il suo ultimo respiro, è a lei personalmente, è a me personalmente che pensava. Mai ha abbandonato l’amore folle che nutre per lei, anche quando lei era il più lontano da Lui”.
Il libro si apre proprio narrando questo incontro e dialogo tra Maiti e Leo, avvenuto nel 1984, quarant’anni dopo la prigionia della giovane pianista, e ricostruisce poi le dense e travagliate vicende della sua giovinezza. Passano poi altri vent’anni, perché maturi in Maiti la consapevolezza dell’utilità di raccontare quanto ha vissuto. Ora – conclude l’anziana signora Girtanner, “la mia vita si dirige verso la fine… A me, abitata dalla fede in Colui che mi ha creata, mi ha sempre guidata e oggi mi attende, non resta che mormorare la preghiera del vecchio Simeone, mentre accoglie in bambin Gesù al tempio di Gerusalemme: Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto a tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”.
(Gregorio Curto – 2022-08-20)
Divertenti i versi, pregevoli i disegni, originale la trama, spassoso il titolo del volumetto Quell'asino di un bue. Alle parole e alle illustrazioni si aggiungono le musiche, che si possono ascoltare inquadrando con un lettore il codice qr, stampato nella prima pagina di alcuni capitoli. Giampiero Pizzol, Roberto Abbiati e Walter Muto (autori rispettivamente di testo, illustrazioni e musiche) si sono armonicamente "coalizzati" per pubblicare un'opera sul Natale adatta a bambini e ad adulti. Protagonisti, accanto a Gesù, Maria e Giuseppe, un diavolo anticonformista (che non ama l'inferno, né le bugie) e un angioletto sconsolato, che si è sfortunatamente staccato dal gruppo dei suoi pari. Credereste che si incontrano e che possa nascere tra loro persino una simpatia? Grazie a una bacchetta magica che sta alle porte del paradiso vengono trasformati rispettivamente in bue e in asino ed assisteranno in prima fila al più grande spettacolo della storia. Ecco la divertente pagina che narra del loro incontro.
Solitario presso un fosso
stava un alto e bel cipresso,
ai suoi piedi c'era un sasso.
Si sedette lì a ridosso
l'angioletto un po' depresso
con lo sguardo volto in basso.
Ma che succedeva adesso?
Era un sogno?! Ehi, quel sasso
tutto a un tratto si era mosso.
L'angioletto era perplesso:
un sasso che va a spasso
non succede tanto spesso.
Gli sembrava il guscio in fuga
di una vecchia tartaruga!
Ma quel sasso avea per giunta
una coda rossa a punta,
E due corna sul davanti…
Gli bastaron pochi istanti
e poi disse: "Orco cavolo!.
Macché sasso. Questo è un diavolo”.
(Gregorio Curto_2021-12-11)
Hanno la freschezza di una narrazione a voce, pronunciata di getto, le parole del volumetto Il mio viaggio della speranza di Bay Mademba. Sessantatré pagine, senza alcuna divisione in capitoli, che si leggono tutte d’un fiato.
L’autore racconta una grande avventura, iniziando con la sua triste condizione di bambino senegalese: “Persi presto il mio babbo; lui aveva quarantadue anni. La mia mamma era molto giovane perché si era sposata a tredici anni, ed aveva nove figli. Io avevo sette anni”. Bay ha la fortuna di poter studiare, ma desidera tanto divenire al più presto un sostegno reale, anche economico, per la sua famiglia. A sedici anni lavora come falegname da un artigiano ed impara a costruire finestre. Dà quello che guadagna alla sorella, che provvede a fare la spesa per tutta la famiglia. “Ma i soldi non bastavano mai,” così il ragazzo si impegna anche a pulire le automobili di un grande parcheggio, sperando di raccogliere qualche mancia. Poi fa il facchino in un porto, dimostrando così grande laboriosità e versatilità. Nasce in lui il desiderio di emigrare, possibilmente in Europa. I primi tentativi non hanno successo. Si imbatte più volte in faccendieri che lo imbrogliano, agenti delle forze dell’ordine corrotti, autorità che lo gettano in carcere.
Ha ventisei anni quando dalla Turchia, raggiunta dopo un’impervia traversata su montagne coperte di neve, inizia il suo viaggio verso l’Italia. Giunto in Grecia su una fragile imbarcazione, viene ospitato in un centro di accoglienza dove ottiene lo stato di rifugiato politico. Ad Atene, dove viene cordialmente ospitato da una cugina, si dà da fare come venditore ambulante di oggetti di artigianato africani. Arrivato in Italia, può riabbracciare due suoi fratelli e stabilirsi a Pontedera; trova qui finalmente un lavoro regolare, quando un suo connazionale gli parla di una cooperativa “dove si possono acquistare libri africani e poi pagarli dopo averli venduti”.
Da questo momento la narrazione cambia tono: Bay inizia a parlare di come avvicina i passanti ai quali propone l’acquisto di un libro, degli incontri fatti in strada per lo più con persone sensibili e ricettive alle sue proposte (ma qualche volta distaccate e ostili), di veri legami di amicizia che si instaurano con dalcuni italiani, di aiuti che gli giungono totalmente inaspettati. Un giorno Davide, uno studente universitario, gli offre un computer. “Pensavo che lui avesse fatto finta e che quella promessa fosse una scusa per andarsene via, invece tre giorni dopo è tornato da me col computer. Ma io non potevo prenderlo perché abito in un paesino a molti chilometri di distanza e non possiedo un’automobile per spostarmi. Lui mi ha proposto: ‘Te lo porto io fino a casa e te lo installo’.” Così si mettono d’accordo, Davide porta il computer a casa di Bay e i due diventano amici. Poi è Bay che, coadiuvato da una sorella, invita a casa sua Davide con la fidanzata… e questa riceve in dono dalle senegalese “ un vestito verde molto bello che in Senegal viene indossato dalle ragazze che sono felici”.
Nel racconto di Bay emergono qua e là i tratti distintivi della sua personalità, in perfetta sintonia con il credo e i valori dei suoi connazionali: la cordialità, l’amicizia, il rispetto dell’altro, una fede religiosa convinta ma mai intollerante. “A me piace il mio lavoro perché amo parlare con la gente, l’essere umano è una cosa che a me piace tanto. L’incontro con l’altro ha un valore soprannaturale, perché è l’incontro con una creatura di Dio, dunque avvicinandosi all’altro con amore, è come avvertire in lui la presenza dell’Onnipotente. Per questo ogni uomo è sacro e non deve mai essere oggetto della violenza”.
(Gregorio Curto_2021-12-12)
Un sentiero, che conduce dalla casa situata nel paese al casolare presso l’orto, è il luogo privilegiato per le profonde riflessioni di Felipe Diaz Carrion, protagonista del romanzo. È un luogo anche simbolico, metafora della vita, che è sempre un cammino denso di imprevisti ed asperità, ma diretto a una meta dove chi non si è arreso troverà conforto e pace. Camminando lungo il sentiero Felipe osserva e contempla la natura: raccoglie i semi delle piante, è sorpreso da violenti temporali o infastidito dalla polvere, che si leva come una nube ad offuscare la vista. Poco distante dal casolare, sulla cima del Pedralen, una croce eretta nel 1977 ricorda a Felipe la tragica fine di suo padre, perseguitato ed infine ucciso dai suoi avversari politici.
Il protagonista del romanzo è un onesto lavoratore, sposato alla bella Asun, che le ha dato due figli: il primogenito Juanito e un secondogenito, chiamato (come il padre) Felipe. L’agitato contesto politico della Spagna del secondo Novecento, dilaniata dal terrorismo dell’ETA, non tarda a ripercuotersi nella famiglia Carrion: Felipe Diaz non può che constatare il rapido cambiamento di mentalità e di comportamento prima del suo secondogenito, poi della moglie, che si allontanano da casa, attratti dal miraggio di una giustizia da instaurarsi con la lotta armata. Il dramma della famiglia divisa e di un figlio perduto (atteso pazientemente, come nella parabola del padre misericordioso, ma mai tornato a casa) addolorano profondamente Felipe senior, che nulla può davanti all’insondabile mistero della libertà della persona, sempre aperta all’opzione del male. Felipe junior – questo è chiaro al padre - ha occhi che non vedono la realtà, offuscati dall’ideologia. Invano il padre ammonisce il suo secondogenito, assumendo toni concitati in un dialogo che alla fine non fa che esasperare i contrasti:
Sai che ti dico, che tuo padre sarà anche uno che non sa molte cose e tutto il poveraccio e la nullità che dici tu, ma c’è una cosa che sa ed è questa: che alcune cose sono giuste in questa vita e altre sono ingiuste… Che alcune cose sono verità, verità di quella buona, e altre non sono altro che pure menate e pessime fantasmagorie, e talune sono lecite e altre illecite, tollerabili le une e decisamente intollerabili le altre, come terrorizzare e intimidire e offendere la gente, per non parlare ovviamente di uccidere, uccidere chicchesia.
Dai giornali, con immenso sgomento e dolore, poco dopo Felipe Diaz viene a sapere in un primo tempo del rapimento di un noto economista e delle durissime condizioni nelle quali viene tenuto segregato, in una angusta e fredda cella; poi dell’uccisione da parte dell’ETA (e proprio dalla mano armata del suo Felipe di un professore e di altri due uomini, invisi all’organizzazione terroristica). Il padre è straziato da un dolore immenso che può solo crescere a dismisura, quando egli incontrerà in carcere il figlio assassino e, incapace di rivolgergli la parola, sarà ferito da una raffica di insulti.
Il dramma della libertà della persona, l’impenetrabilità della coscienza dell’individuo, il rischio corso da chi ha la responsabilità di educare: ecco tre elementi nei quali si dibatte Felipe Diaz, mentre ripensa al triste commino del suo primogenito e all’incontro con lui, nel carcere nel quale lo ha visto per l’ultima volta:
Tu te ne sei andato in giro con chi vuoi, gli avrei potuto dire, saprai tu quel che fai; hai visto o ti avranno detto quel che vuoi o quel che hai voluto credere, ma sapere, sapere davvero, quel che si dice sapere che aria tira o sapere il fatto tuo, di questo niente, figlio mio, di questo niente di niente. Provare una preoccupazione autentica o come un minimo sentore di vero tremito verso le persone o le cose, un rispetto anche dinanzi alle parole con le quali si parla delle persone o delle cose, di questo niente… Ci sono molte cose che non vanno a questo mondo, figliolo, avrei dovuto dirgli, molte, e alcune vanno ancor peggio, come diceva tuo nonno, ma possono sempre peggiorare molto di più per quanto vadano già male se le si vuol sistemare da dove è meglio non metter mano, se si vuole prendere un sentiero che si crede sia una meravigliosa scorciatoia e invece risulta non essere né una scorciatoia né un sentiero né porta da nessuna parte se non forse a precipitare prima o poi.
Non ha proprio pace il povero padre ferito, nel prolungarsi della sua riflessione:
Tanto si sarebbe messo a ridere, si diceva, di sicuro si sarebbe messo a ridere, glielo avessi detto quando glielo avessi detto e con il tono che fosse, a ridere e a insultarmi… Vero è che avrebbe potuto chiamare la polizia ai primi segnali, si diceva; ma come può uno accusare il proprio figlio e di cosa agli inizi. Questo ragazzo è un imbecille, avrebbe potuto dire alla guardie, questo ragazzo è un imbecille, ma sarà meglio che non vada più in là e diventi qualcos’altro. Ma come fa uno a denunciare un altro perché imbecille o dire a Dio che tutto questo è grottesco, che non è neppure tragico ma proprio grottesco, un rancore e una sfida stolti e grotteschi?
Dilaniato da questi pensieri, Felipe Diaz viene a trovarsi presso la croce in cima al Pedralen: ha davanti a sé un baratro nel quale potrebbe gettarsi facendo un passo avanti. Potrà però anche scegliere di fare un passo indietro, e poi altri passi indietro, di aprire gli occhi sulla realtà così com’è, tutta intera, dove ha pur sempre un Juanito che gli vuole bene. Il dramma della libertà si gioca proprio per ciascuno fino all’ultimo giorno, in ogni istante della vita.
(Gregorio Curto_2021-12-29)
Con il suggestivo titolo I confini di Babele, Andrea Moro si pone il seguente interrogativo: “perché non tutte le grammatiche concepibili sono realizzate?”. Il libro è un approfondito saggio di linguistica, che analizza specialmente le strutture della sintassi comparando diverse lingue, includendo considerazioni sull’origine del linguaggio, sull’apprendimento della lingua madre nei bambini, sulle analisi delle attività cerebrali nei soggetti posti davanti ad un testo che vien dato loro da leggere o da ascoltare.
Centrale il capitolo nel quale l’autore, rifacendosi alle nozioni della grammatica generativo-trasformazionale di Noam Chomsky, analizza la possibilità di modificare l’ordine dei sintagmi di una frase o di ampliare la frase con nuovi sintagmi, considerando se questa mantenga o meno il suo senso e la correttezza grammaticale.
A titolo di esempio si osserva:
Un matematico racconta molte storie (corretta o "grammaticale")
Un matematico raccontano tante storie (scorretta o meglio "agrammaticale")
I ragazzi che conoscono un matematico raccontano tante storie ("grammaticale").
Nell’ambito del confronto tra le lingue il lettore viene a saper che le lingue parlate nel mondo sono un numero compreso tra 6000 e 7000, ma è certamente una stima al ribasso, se si considerano le circa 300 varietà di dialetti italiani. E’ certo d’altra parte che gli idiomi sarebbero molti di più, anzi un numero pressoché infinito, se si dovessero combinare in altrettante parlate tutte le possibili strutture della sintassi. Un’operazione di questo genere condurrebbe alla scoperta di una sorta di tavola di Mendeleev delle lingue. Sorprenderà per altro il linguista non esperto sapere che ci sono delle lingue nel quale il corretto ordine delle parole in una frase è radicalmente diverso da quello che si usa in italiano.
Mara ha detto che Gianni ha visto quella foto
riscritta con lessico italiano e sintassi giapponese (una lingua al di fuori dei confini di Babele), risulterebbe:
Maria Gianni quella foto visto ha detto che ha.
Molto interessanti anche le osservazioni sulle lingue creole, che coniugano i verbi dando sfumature di diverso significato con l’accostamento dei monosillabi bin, go, stay, che esprimono rispettivamente anteriorità, irrealtà e continuità); cosicché avremo:
he walk = egli cammina
he bin walk = egli camminava
he go walk = egli camminerebbe
he stay walk = egli sta camminando
e con ulteriori combinazioni:
he bin go walk = egli avrebbe camminato (anteriorità e continuità
he bin stay walk = egli starebbe camminando (irrealtà e continuità).
In altre pagine Andrea Moro considera l’unicità del linguaggio umano al confronto delle diverse modalità di comunicazione degli animali, basandosi soprattutto sui costrutti sintattici, totalmente estranei anche alle specie animali più evolute; osserva d’altra parte, citando Chomsky, che nell’apprendimento della lingua madre da parte dei bambini si assiste a vari fenomeni che inducono a pensare che “acquisire una lingua è una cosa che a un bambino succede, non una cosa che un bambino fa… Esattamente come a un bambino succede che gli crescano il fegato o i polmoni”.
Per quanto riguarda lo studio delle attività cerebrali connesse al linguaggio l’autore si rifà agli studi di neurologia relativi all’area di Broca rilevata come parte del cervello dove si elabora il linguaggio; considera tuttavia che alla luce di più recenti esperimenti condotti con la tecnica delle neuroimmagini, anche altre aree sono coinvolte nei processi di apprendimento e comunicazione linguistica. Rileva infine quanto molto rimanga ancora da scoprire nell’ambito della natura e dell’evoluzione del linguaggio umano e dei nessi tra linguistica e neurologia. “Se ho dato la sensazione di aver risolto tutto e tutto possa essere compreso - conclude - o peggio, sia stato già compreso, allora avrei sbagliato. Mi sono ormai convinto che il linguaggio è per l’uomo un po’ come la tartaruga per Achille: tutte le volte che ci avviciniamo, lei va avanti di un passo e ci lascia a bocca asciutta. Ma sono così ottimista da pensare che tutti insieme possiamo arrivare così vicino da guardarla dritta negli occhi, la nostra tartaruga”.
(Gregorio Curto - 2021-01-16)
Scritto in prima persona, con i verbi coniugati al presente indicativo, Sempre tornare è il racconto del viaggio che il diciassettenne Daniele compie da Rimini fino a Roma, precisamente fino all’amata casa dove abita con i genitori, un fratello e una sorella. L'avventura ha inizio il 15 agosto del 1991, dopo una figuraccia che Daniele ritiene di aver fatto alla discoteca Cocoricò: è così amareggiato che decide di staccarsi dai due amici con i quali ha iniziato la vacanza e di tornarsene a casa da solo, in autostop. Il piano si rivela ben presto come dettato da un gesto impulsivo, quando Daniele si accorge di avere lasciato ai suoi amici la carta di identità e le cinquantamila lire che aveva nel portafogli. Il ragazzo però non desiste affatto dal suo proposito: vuole gustarsi una libertà “senza vincoli” e cercare risposte alle domande che si pone chi non vuole condurre un’esistenza banale. Si interroga perciò sul senso della vita, sul perchè del dolore, sull’importanza degli affetti, su dove si trovi e che utilità abbia la bellezza
Il viaggio riserva a Daniele molte sorprese fin dai primi momenti, quando gli diventa ben chiaro che ha assoluto bisogno di aiuto e dovrà perciò chiedere, per di più a persone totalmente sconosciute, di essere soccorso per i suoi bisogni primari: acqua da bere, cibo, un giaciglio (anche molto povero) dove passare la notte. È così che il diciassettenne si imbatte in un ventaglio quanto mai variegato giovani e meno giovani, iniziando da un signore che, dopo avergli dato un passaggio sulla sua automobile, lo invita ad una festa e gli fa conoscere i suoi amici, offrendogli poi una gustosa abbondante cena e una confortevole camera per la notte. Daniele apprezza sempre l’ospitalità che gli viene offerta: quella di chi incontra fugacemente e gli regala solo un bicchiere d’acqua, non meno di quella dei ricchi, che lo accolgono nelle loro case. Incontra così una vasta gamma di tipi umani, che lo fanno riflettere: tra questi ci sono due coniugi, che gli offrono un pasto e un comodo letto, ma si rivelano litigiosi e infelici, come dimostrano chiaramente nell’uccidere spietatamente un gattino che ritengono ingombrante. Altro incontro che fa riflettere Daniele, mettendolo anche alla prova ed offrendogli l’opportunità di essere lui la persona che aiuta, è quello con Manlio, un giovane infelice single, incapace di troncare con un lavoro che non gli piace e lo ha reso un malato di mente, bulimico oltre ogni immaginazione.
L’incontro più gradito (uno dei primi del lungo viaggio) è quello con la giovane Emma, la sola persona che Daniele rivede una seconda volta, alla stazione Termini di Roma. Per lei, in una notte indimenticabile, il giovane autostoppista ha scritto una poesia, che il lettore troverà solo in appendice al romanzo. L’ultimo capitolo del libro, come si può prevedere, racconta del felice ritorno a casa di Daniele, che può godersi la sua casa con una gioia centuplicata ed abbracciare la madre, tenuta fino a quel momento all’oscuro della sua avventura.
Le riflessioni dell’io narrante sono intrecciate al racconto, gli vengono suggerite dalla realtà che si presenta estremamente variegata ai suoi occhi, si trasformano non di rado in preghiera. Sono inoltre costellate di metafore, che rendono il romanzo, nel suo periodare composto di frasi a volte brevissime, una vera poesia. Ecco, ad esempio, uno squarcio della mente e del cuore di Daniele in sosta ad Assisi:
La Porziuncola è tutta qui. È più piccola di casa mia. Un uomo e una chiesa minuscola, di mattoni grezzi. Nessun esercito, nessuna arma. Dittatori vanno e vengono, lasciando solchi di morte, delirando su imperi e primati. Francesco s’è spogliato, ed è rimasto. Lui e la sua devozione per Dio, che ritrovava in ogni essere vivente, dentro ogni atomo di materia. Dal povero all’animale, dal fuoco al sole, sapeva che tutto è rivolto a lui e tutto si deve accogliere. Perchè lui è in tutto.
Più avanti, in una stazione ferroviaria deserta:
Su una panchina di legno concedo al corpo quello che vuole più di ogni cosa. Non esiste tesoro con cui farebbe a cambio. Un po’ di riposo. Ho le braccia che pesano come fossero di piombo, non parliamo delle gambe. Mi allungo sulla seduta, la sensazione è di sprofondarci dentro, come in un pozzo invisibile, senza fine.
E ancora, ormai vicinissimo alla meta:
La bellezza c’entra. È l’ultima alba del mio viaggio. Mi sale di fronte illuminando il profilo dei miei paesi, il palmo di terra dove la mia vita si arrampica, ogni giorno, a mani nude sul crinale della gioia, e spesso cade, ruzzola, ai piedi della disperazione.
Infine a casa:
Resto a distanza. Seduto su un pezzo di muretto, al riparo. Ad adorare la mia casa. A mangiarmela con gli occhi. Per tutta la sua bellezza visibile e invisibile. Perchè è la mia. E di quello che più amo al mondo. Vivrò tutta la vita che verrà con un punto fermo. Ogni viaggio mi riporterà a casa. Lontano da casa, per sempre, morirò. Potrà essere questa che ho di fronte o un’altra, non importa…
(Gregorio Curto - 2022-02-26)
Ti voglio felice è una raccolta di interventi di Papa Francesco, tenuti in varie occasioni e in diversi luoghi, rivolti principalmente ai giovani. Vi si trovano pertanto alcune tematiche ricorrenti, ma sempre la freschezza di una parola serena, che non stanca mai, volta a rincuorare e incoraggiare. Tali sono i richiami alla speranza. Il Santo Padre rileva che ci sono tante persone tristi, come quei giovani che, dopo aver sperimentato tante cose, non hanno trovato il senso della vita e cercano il suicidio come soluzione. “Hanno provato tante cose ma la società, che è crudele, non ti può dare speranza. La speranza è come la grazia: non si può comprare, è un dono di Dio. E noi dobbiamo offrire la speranza cristiana con la nostra testimonianza, con la nostra libertà, con la nostra gioia”.
In altre pagine Papa Francesco esorta i giovani a non spegnere il desiderio, precisando che questo non è la voglia del momento, ma la “mancanza della stella” (dal latino de-sidus), cioè la mancanza di un punto di riferimento che orienta il cammino della vita; è perciò “la bussola per capire dove mi trovo e dove sto andando, anzi è la bussola per capire se sto fermo o sto andando: una persona che mai desidera è una persona ferma, forse ammalata, forse morta”. La vita infatti è un cammino al quale non ci può sottrarre, un cammino sempre affascinante, anche quando le asperità lo rendono arduo: “Camminare è l’arte di guardare l’orizzonte, avendo in mente dove io voglio andare, ma anche sopportando la stanchezza del cammino. Molte volte il cammino è difficile… Ma pensate sempre a questo: non abbiate paura dei fallimenti, non abbiate paura delle cadute. Nell’arte di camminare, quello che importa non è non cadere, ma non ‘rimanere caduti’. Rialzarsi e continuare ad andare: questo è camminare umanamente”. A questo proposito il Santo Padre esorta anche a non censurare nulla del proprio passato. “Come trattate – chiede – i fatti e le immagini impressi nei vostri ricordi? Ad alcuni, particolarmente feriti dalle circostanze della vita, verrebbe voglia di ‘resettare’ il proprio passato, di avvalersi del diritto dell’oblio. Ma vorrei ricordarvi che non c’è santo senza passato, né peccatore senza futuro. La perla nasce da una ferita dell’ostrica! Gesù, con il suo amore, può guarire i nostri cuori, trasformando le nostre ferite in autentiche perle”.
Le esortazioni ai giovani si colorano spesso di immagini vivaci, che li inducono a non restare inerti, ma a rischiare: “Non rinunciate al meglio della vostra giovinezza, non osservate la vita dal balcone… Non siate auto parcheggiate, lasciate piuttosto sbocciare i vostri sogni e prendete decisioni. Rischiate, anche se sbaglierete. Non sopravvivete con l’anima anestetizzata e non guardate il mondo come se foste turisti. Fatevi sentire! Scacciate le paure che vi paralizzano, non diventate giovani mummificati. Vivete! Datevi al meglio della vita!”.
Papa Francesco può ben rivolgersi, con la profondità e la semplicità delle sue parole ad ogni giovane a ad ogni uomo, senza dimenticare che la radice della gioia è in Gesù e nel Vangelo, proprio perché seguendo Gesù si compiono i desideri più autentici e più profondi del cuore dell’uomo. Così può dire della gioia che “non si può fermare: deve andare avanti perché è una virtù pellegrina. È un dono che cammina, che cammina sulla strada della vita, che cammina con Gesù: predicare, annunziare Gesù, la gioia, allunga la strada e allarga la strada. Ed è una virtù di quei grandi che sono al di sopra delle pochezze, che sono al di sopra delle piccolezze umane, che guardano sempre all’orizzonte. La gioia è una virtù del cammino”.
Altro tema sviluppato in diversi capitoli del libro è quello del perdono e della misericordia. Papa Francesco rilegge infatti e commenta la parabola del buon samaritano, in altre pagine si sofferma sulle beatitudini e sulle opere di misericordia tratte dal capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo, in altre ancora esorta al perdono: “Ci sono due cose che non si possono separare: il perdono dato e il perdono ricevuto. Tante persone sono in difficoltà, non riescono a perdonare. Tante volte il male ricevuto è così grande che riuscire a perdonare sembra come scalare una montagna altissima”, ma aggiunge “questo fatto della reciprocità della misericordia indica che abbiamo bisogno di rovesciare la prospettiva. Da soli non possiamo, ci vuole la grazia di Dio, dobbiamo chiederla”.
Ogni esortazione del Santo Padre – questo il pensiero dominante di tutto il libro - è imperniata sulla consapevolezza che “Dio vuole per noi il meglio: ci vuole felici. Non si pone limiti e non ci chiede interessi”. Per questo è ragionevole non censurare l’invito a una conversione: “Gesù che è con noi ci invita a cambiare vita. È Lui, con lo Spirito Santo, che semina in noi questa inquietudine, affinché cambiamo vita e diventiamo migliori. Seguiamo questo invito del Signore e non poniamo resistenze, perché solo se ci apriamo alla sua misericordia troviamo la vera vita e la vera gioia”.
(Gregorio Curto – 2023-08-05)
Scritto con lo stile del romanzo (in particolare con i nomi di fantasia Ryukichi e Haruno, attribuiti al protagonista e alla sua consorte), Ciò che non muore mai è in realtà una vera autobiografia del medico giapponese Tagashi Paolo Nagai, che racconta di sé dalla sua infanzia fino al giorno in cui si vide allettato a causa di un tumore contratto in circostanze drammatiche.
Ryukichi cresce immerso nella cultura e nella tradizione giapponesi, educato secondo la religione prevalente tra i suoi connazionali, ma incontra un fervente gruppo di cristiani nipponici, prima ancora di laurearsi, nel quartiere Urakami della città di Nagasaki. Frequentandoli, è affascinato sempre più dal loro stile di vita e si sorprende edificato dalla testimonianza di molti martiri che nei secoli passati, come apprende dai suoi studi e da quanto gli viene narrato, hanno versato il loro sangue pur di non rinnegare la fede.
Conseguita a pieni voti la laurea in medicina, Ryukichi organizza con i compagni di studi una festa, durante la quale prende una grande sbornia; sopraggiungono poi una brutta otite e una meningite, dalle quali il giovane medico si riprende solo dopo un delicato intervento chirurgico e una lunga convalescenza. Questa esperienza lo porta a una profonda riflessione: “Di fronte a una sciagura inattesa, le ambizioni di un uomo, i suoi progetti e i suoi sogni di gloria si possono disperdere nel nulla come un miraggio fugace che non ha consistenza.” Inizia così a pensare che “doveva scegliere uno scopo per la sua vita che fosse indistruttibile, invincibile ed eterno”. Il giovane medico sceglie poi di specializzarsi in radiologia, una disciplina a quel tempo, almeno in Giappone, poco considerata, tanto da non avere un proprio dipartimento.
I capitoli seguenti di Ciò che non muore mai narrano l’impegno del protagonista nella sua professione di radiologo, in un primo tempo al seguito del professor Asakura: un impegno sempre teso sia alla ricerca che alle cure del malato, indomabile nel tentativo di ottenere un riconoscimento adeguato all’utilità delle radiografie nella diagnostica non meno che all’efficacia delle cure con radioterapia. Alternate a questi temi, si dipanano le vicende che coinvolgono Ryukichi come medico soccorritore dei feriti in ben due guerre (dapprima contro il Giappone, poi nel conflitto mondiale, terminato con l’ecatombe delle due bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki). La profonda fede cristiana del protagonista è l’elemento che rende la sua travagliata vita profondamente unita, spronandolo nelle asperità, consolandolo nei rari momenti di riposo, lanciandolo nella missione, come accade nel suo impegno con i Vincenziani. “Al di fuori del porto di Nagasaki – scrive l’autore – nelle isole lungo la costa, si trovavano molti insediamenti di cristiani… I Vincenziani andavano a trovare questa gente la domenica e nei giorni festivi per portare cure mediche, per intrattenere i bambini con le loro storie, per organizzare proiezioni con la lanterna magica, per parlare con i giovani e per distribuire vestirti alle famiglie più povere”.
La lunga narrazione di Ryukichi non si dilunga nel raccontare di Haruno, ma le riconosce un ruolo preminente, fin dal racconto di una notte di Natale, quando il giovane medico si carica sulle spalle la giovane, prostrata per una acuta appendicite, e le salva la vita portandola in ospedale, dove viene operata d’urgenza. Haruno si unisce poi in matrimonio con Ryukichi (avranno tre figli) e gli è vicino come nessun altro, durante le assenze dello sposo impegnato in guerra, con le sue preghiere e con i suoi doni (un maglione, un catechismo). Commoventi le pagine nelle quali i due si rivedono dopo un lungo periodo di separazione: “Sulla banchina i volti delle persone in attesa erano allineati come pomi nella vetrina di un fruttivendolo: mele, pere, mandarini… Ryukichi lanciò uno sguardo tra quelle centinaia di volti colorati e riconobbe subito quello di Haruno. Erano quattro anni che non lo vedeva ma non lo aveva dimenticato. Fu sorpreso di averla individuata così, a colpo d’occhio. Haruno portava in volto i segni della fatica della vita. Lungo tutta la sua assenza, aveva lavorato in una scuola femminile insegnando cucito e aveva mantenuto la famiglia con il suo salario”.
Il 9 agosto del 1945, quando Nagasaki è distrutta dalla bomba atomica, Ryukichi scampa alla morte, ma ha già i mesi contati, essendogli stato diagnosticato poco prima un tumore, contratto con gli stressanti ritmi di lavoro, che lo hanno esposto smisuratamente ai raggi X. Tra le vittime dell’atomica c’è invece la sua fedelissimo sposa, ridotta a un mucchio di cenere, ma inequivocabilmente identificata grazie a una catena del rosario rinvenuta tra le ossa bruciate. Bruciati erano pure i frutti del suo paziente lavoro di ricercatore e di radiologo.
L’infaticabile medico inizia così a vivere da disabile, progressivamente impedito nei movimenti e nella parola, ma con una grande certezza e un cuore lieto: “Tutta una vita per della cenere! Non poteva sopportare una vita senza senso. Doveva trovare ciò che non perisce. Doveva aggrapparsi a ciò che non muore mai… Aveva compreso che ciò che oltrepassa il tempo e lo spazio e rimane per sempre è la Parola di Gesù Cristo che è Dio… La vita dello spirito: è questa la vera vita che un uomo deve vivere… In una piccola capanna nel mezzo della landa atomica spazzata dal vento, con due bambini piccoli tra le braccia e il corpo che non può più muovere come vorrebbe, Ryukichi ora conduce la sua vita nel fulgore”.
(Gregorio Curto – 2023-07-15)
“Molti di quelli che stavano con Gesù rimproveravano Bartimeo perché tacesse. Per questi discepoli il bisognoso era un disturbo sul cammino, un imprevisto nel programma stabilito. Preferivano i loro templi a quelli del Maestro, le loro parole all’ascolto degli altri: seguivano Gesù, ma avevano in mente i loro progetti… Per Gesù, invece, il grido di chi chiede aiuto non è un disturbo che intralcia il cammino, ma una domanda vitale… Guardiamo Gesù, che non delega qualcuno della ‘molta folla’ che lo seguiva, ma incontra Bartimeo in persona. Gli dice: ‘Che cosa vuoi che io faccia per te?’. ‘Che cosa vuoi’: Gesù si immedesima in Bartimeo, non prescinde dalle sue attese; che io faccia: fare, non solo parlare; per te: non secondo idee prefissate per chiunque, ma per te, nella tua situazione. Ecco come fa Dio, coinvolgendosi in prima persona con un amore di predilezione per ciascuno. Nel suo modo di fare già passa il suo messaggio: così la fede germoglia nella vita”.
Le riflessioni di Papa Francesco sulla guarigione miracolosa del cieco Bartimeo, insieme ai commenti ad altri passi evangelici, sono contenute nella Vita di Gesù di Andrea Tornielli, un volume nel quale l’autore ripercorre la vita dell’Uomo-Dio riportando ampi brani dei quattro autori canonici disposti in un rigoroso ordine cronologico. Ecco perciò collocati nell’anno 6 a. C., all’inizio del percorso, l’annuncio a Maria, la decisione di Giuseppe e il viaggio da Elisabetta, ai quali seguono, nel secondo capitolo del libro, il viaggio per i censimento, la nascita a Betlemme, l’adorazione dei pastori, la presentazione di Gesù al Tempio… fino al capitolo finale: Dalla Galilea al mondo. Anno 30 d. D, aprile-maggio. Dove gli autori sacri lasciano spazio ad integrazioni, Tornielli interviene indagando su diversi personaggi della vicenda, dei quali offre un suggestivo ritratto, come accade ad esempio per Pilato e la moglie Claudia.
“Quella notte aveva dormito male e l’aveva trascorsa in preda agli incubi. Claudia Procula, moglie di Ponzio Pilato, era una donna romana di poche parole. La sua grande intelligenza e la sua profonda umanità l’avevano resa un’insostituibile consigliera del marito divenuto il più alto rappresentante del potere di Cesare in questa sperduta e riottosa provincia dell’Impero romano. Era una donna minuta, dai lineamenti eleganti, che non amava le apparenze né i posti d’onore. Viveva volentieri nel palazzo di Cesarea Marittima e non accompagnava di buon grado Ponzio Pilato a Gerusalemme… Lui, il governatore romano, era un uomo tarchiato, dai modi spicci, capace organizzatore, inflessibile. Sapeva essere anche spietato. Amava leggere e studiare ed era uno stratega riconosciuto. Non era facile decifrare sul suo volto emozioni e pensieri. Il suo sguardo incuteva timore. Da anni l’imperatore si fidava di lui e della sua capacità di soggiogare il popolo d’Israele, anche se Pilato aveva dovuto far fronte all’influenza crescente che il tetrarca di Galilea, Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, aveva a poco a poco conquistato presso la famiglia imperiale”.
Ad altri personaggi della sua Vita di Gesù Tornielli assegna un nome proprio, ampliando anche in questo caso il racconto degli evangelisti: così accade per Issachar (il “cieco nato” di Giovanni 9,1 ss.9) e per Ismaele, dal cui figlio Lot Gesù caccia uno spirito malvagio che si era impossessato di lui.
In più punti viene messa in risalto la natura della missione di Gesù, volta a cambiare i cuori di chi incontra il Maestro o i suoi discepoli, non a una azione politica, che possa liberare Israele dagli oppressori Romani. Gesù stesso svela questo progressivamente, accompagnando il cammino i suoi discepoli: tra i quali si notano pescatori ed esattori delle tasse, zeloti disposti a cambiare o, al contrario, irriducibili come Giuda Iscariota; e ancora testardi resistenti, ma poi progressivamente sinceramente convertiti al disegno divino, come Simon Pietro.
La missione non è così legata al “successo”. Per questo quando i settantadue discepoli tornano dicendo “Signore, anche di demoni si sottomettono a noi nel tuo nome”, Gesù li ammonisce: “Non rallegratevi … perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”. E Papa Francesco commenta: “La missione si basa sulla preghiera; che è itinerante, che richiede distacco e povertà… che non è proselitismo ma annuncio e testimonianza… La missione della Chiesa sarà caratterizzata dalla gioia… non si tratta di una gioia effimera, che scaturisce dal successo della missione; al contrario, è una gioia radicata nella promessa che – dice Gesù – ‘i vostri nomi sono scritti nei cieli’. Con questa espressione Egli intende la gioia interiore, la gioia indistruttibile che nasce dalla consapevolezza di essere chiamati da Dio a seguire il suo Figlio”.
I diversi contributi al libro di quelli che si possono a ragione considerare suoi autori (Andrea Tornielli, i quattro evangelisti, Papa Francesco) sono distinti da un diverso carattere grafico, che per libri sacri il corsivo, per i contributi del Santo Padre un tondo ridotto, con margini più larghi.
(Gregorio Curto – 2023-06-10)
Debora Dos Santos è una ragazzina di quindici anni, che vive a Manaus, nel cuore della foresta amazzonica, con i suoi genitori e una domestica. La famiglia vive agiatamente: la casa è ampia con intorno un bel giardino, papà e mamma sono intraprendenti e pazienti, specialmente con la loro figlia, che si dimostra invece incontentabile e capricciosa. Un giorno, mentre osserva in un programma televisivo un lupo siberiano scorrazzare nella neve fresca, Debora lancia infatti un urlo (“lo voglio!”) manifestando un acceso desiderio - in verità una pretenzioso capriccio -, che i genitori faranno di tutto per esaudire. Inizia così un lungo percorso, che porta la famiglia Dos Santos a consultare prima un veterinario, poi un commerciante, importatore delle più svariate merci e specie animali. Finalmente il lupo siberiano arriva a Manaus con i bagagli di un aeroplano partito dalla Russia: ha i genitori dell’epoca delle perestroika, è stato concepito negli anni delle riforme di Elstin ed è nato nel regime di Putin. Debora decide di chiamarlo Totò.
È facile immaginare quanto a disagio si troverà l’animale siberiano nel clima caldissimo di una zona equatoriale. L’ostinata Debora non vuole però recedere dai suoi capricci, neppure quando vede che “Totò rincorreva la pallina di gomma senza l’entusiasmo del cucciolo, si strofinava sull’erba svogliatamente, rispondeva alle carezze con mestizia, si nutriva senza la voracità della sua razza”. Per contro la ragazzina lo porta a spasso tenendolo al guinzaglio e non esita a strattonalo, quando il lupo si attarda, affaticato. Basteranno a salvare Totò i diversi altri accorgimenti che gli si vorranno riservare? Papà e mamma Dos Santos non esiteranno a venire incontro ai capricci della loro figlia, provvedendo il loro giardino prima di una piscina con acqua e ghiaccio, poi di un gigantesco ventilatore a pale… in una estate particolarmente calda anche per Manaus, da emergenza climatica e conseguente carenza di energia elettrica. Il finale è a sorpresa con un elemento che lo fa sconfinare nel grottesco.
Lupo siberiano è un romanzo breve, che troveranno piacevole ed edificante specialmente gli adolescenti e i giovani; una lettura che insegna a non essere presuntuosi e ad aver cura dell’ambiente, lasciando anzitutto ogni essere vivente nel suo habitat naturale.
(Gregorio Curto – 2023-06-09)
Ultime recensioni inserite
Ali di farfalle / Giampiero Pizzol ; illustrazioni di Arcadio Lobato
L’originale vicenda narrata in Ali di farfalle inizia con l’anziano Noè ancora rinchiuso nella sua grande arca, ma già proiettato in una sorta di nuova creazione: cadono infatti le ultime gocce di una pioggia non più torrenziale, poi le acque si ritirano, appare uno stupendo arcobaleno e uomini e animali si apprestano a moltiplicarsi e a ripopolare il mondo. Noè è in ottimi rapporti con Dio: gli parla e può ascoltarlo e ben comprenderlo, anche quando si sente dire: “Un giorno, quando la storia del mondo sarà alla fine, Io pianterò un nuovo giardino a Oriente, un luogo tanto grande da ospitare ogni specie di uomini e animali. Tutti torneranno a vivere in pace come fu all’alba dei tempi: il leone giocherà con l’agnello e i viventi vivranno per sempre senza conoscere la morte”. Noè si compiace di questa bella notizia, ma un po’ anche si allarma quando Dio gli affida il compito di trasmetterla a tutti gli animali, concedendogli la facoltà di parlare con loro: “Tu stesso porta la notizia. Di’ loro che quando saranno morti la loro anima vivrà e un giorno entreranno tutti nel mio giardino perché nulla andrà perduto di quanto sulla terra ha respirato”.
Noè ringrazia Dio e si attiva subito per portare la bella notizia, ma nell’arca – ahimè – non c’è già più nessun animale: vede le groppe delle zebre che si allontanano, gli uccelli come puntini persi nel cielo, impronte di zoccoli e zampe lasciati dai tanti quadrupedi che si sono già slanciati a sgranchirsi le gambe in una corsa liberatoria. Qui inizia la travagliata ricerca del buon vecchio, che non dispera tuttavia di portare a compimento la missione che Dio gli ha affidato. Le tartarughe, con il loro procedere molto lento, sono infatti ancora abbastanza vicine per essere raggiunte. Noè prova ad intendersi con loro, ma incappa una raffica di spassosi equivoci:
-Sono contento che siate ancora qua! /-Sarà lei un gran baccalà!
-Non avete capito… /-A chi scimunito?!
-Signora tartaruga, sono Noè /-Chi è?
Impossibile non perdere la pazienza, o almeno la speranza di potersi servire delle tartarughe per fare arrivare agli altri animali la notizia di una vita riservata anche a loro nel nuovo Eden della fine dei tempi. Noè però non demorde e vedrà riaccendersi le sue speranze (seguite però sempre – ahimè – da amare delusioni) nell’abbordare dapprima un fringuello, poi un asino, poi oche e galline, quindi pecore, rane, cicogne elefanti. Infine appaiono a Noè, all’improvviso, imprevedibili e meravigliosi, come “frecce che dalla terra volavano verso il cielo per poi tornare in mille giri sulla terra… una miriade di piccoli fiori con le ali”. Saranno forse loro che permetteranno a Noè di compiere la missione affidatagli dal Creatore?
Ali di farfalle è un libro semplice, profondo, divertente, vivacizzato da alcune pagine scritte in poesia, come quella sull’arcobaleno del primo capitolo:
Era un arco colorato / da lasciare senza fiato: / rosso vivo e vellutato, / poi arancio un po’ sfumato / giallo oro e verde prato, / quindi azzurro delicato…
(Gregorio Curto – 2023-11-01)
Il mago dei numeri : un libro da leggere prima di addormentarsi, dedicato a chi ha paura della matematica / Hans Magnus Enzensberger ; illustrazioni e progetto grafico di Rotraut Susanne Berner ; traduzione di Enrico Ganni
Il mago dei numeri / Hans Magnus Enzensberger. Torino, Einaudi, 1997
Roberto è un ragazzetto infastidito dagli esercizi che, a scuola, gli assegna il professore di matematica, soprannominato Mandibola, mentre di notte è ossessionato da brutti sogni: gli capita ad esempio, di trovarsi su uno scivolo che non finisce mai, oppure vede una bicicletta con ventiquattro rapporti, che sul più bello si volatilizza, o ancora si imbatte in un grosso pesce che si appresta ad inghiottirlo. Una notte però fa il primo di una serie di sogni di diverso tenore: gli appare un personaggio strano, che si presenta come “mago dei numeri” e lo introduce progressivamente in un mondo affascinante e pieno di misteri. Inizia a presentargli il numero uno (1), poi gli fa sapere che gli antichi Romani non conoscevano lo zero (0)… e via via lo conquista parlandogli di frazioni, di numeri che hanno una infinità di decimali, di quelli che lui chiama numeri principi, numeri bonaccioni, numeri triangolari. Nel sogno della decima notte il mago mostra a Roberto un pentagono che avvolge una stella e lo invita contare i nodi, le superfici e le linnee che compaiono al suo interno, prima di invogliarlo ad eseguire operazioni difficili, che danno come risultato numeri con una imprevedibile successione di cifre dopo la virgola.
A volte Roberto si scoraggia e dice al mago che non ne può più, ma a quel punto si risveglia e, quando lo strano personaggio riapparirà in un altro sogno, il ragazzetto sarà pronto per riprendere il cammino. Nella dodicesima ed ultima notte, il mago rivela il proprio nome e introduce il suo allievo in un gran palazzo, dove dimorano altri maghi molto più illustri di lui, provenienti da ogni parte del mondo. Dopo avere attraversato vari locali, Roberto e la sua guida “entrarono in una sala che era la cosa più grande che Roberto avesse mai visto, più grande di una cattedrale e più grande di un palazzetto dello sport, e molto, molto più bella. Le pareti erano ornate di mosaici con disegni sempre diversi. Una grande scalinata portava verso l’alto, così in alto che non se ne vedeva la fine. Su una specie di largo gradino c’era un trono d’oro, sul quale però non c’era nessuno”. Alcuni dei personaggi che abitano il grande palazzo sono molto anziani, come il greco Pitagora, che Roberto apprende essere stato il matematico che ha trovato come misurare precisamente la circonferenza e la superficie delle grosse torte che si mangiano in quel lussuoso ambiente.
La realtà pone poi Roberto nuovamente di fronte al professor Mandibola e ai suoi non graditi problemi. Potrà ora il ragazzetto affrontarli e risolverli con un altro animo e con nuove strategie?
Il mago dei numeri è un piacevole libro di narrativa, ma affascina anzitutto proprio perché, usando termini che non si usano a scuola, introduce alle curiosità, ai segreti e ai misteri della matematica.
(Gregorio Curto – 2023-10-)
Ciò che inferno non è
In un breve arco di tempo (l’estate del 1993) e in un’unica città (Palermo) si svolge la vicenda narrata in Ciò che inferno non è, protagonista padre Pino Puglisi, chiamato scherzosamente dai suoi alunni 3P (soprannome che lui stesso non ritiene per nulla offensivo) e dai capi-mafia locali ’u parrinu.
A Palermo convivono fianco a fianco gli abitanti di due mondi: i benestanti dei quartieri eleganti e i disagiati di Brancaccio, in quartiere povero vessato dalla mafia. Don Pino è originario di Brancaccio, dove è tornato dopo alcuni anni, nei quali ha svolto il suo ministero sacerdotale altrove: insegna religione in un liceo ed impiega tutto il suo tempo e le sue forze, l’intelligenza e il cuore, per combattere le ingiustizie ed alleviare le pene della povera gente. Ha raccolto tanti bambini in un centro ricreativo chiamato Padre Nostro, dove i piccoli trovano ben altro che la semplice possibilità di giocare: possono infatti incontrare lui, don Pino, e - tramite lui – Gesù, un’amicizia, un conforto, un perdono insperato, un angolo di ‘ciò che inferno non è’.
Don Pino si batte inoltre perché a Brancaccio si possano costruire una scuola per gli adolescenti e un luogo di ritrovo e di formazione per gli adulti, utilizzando un vecchio palazzo, diventato da tempo il covo delle tresche dei mafiosi. “Da mesi sto cercando di farmi dare gli scantinati di questo palazzo. Sono del Comune, ma sono occupati e vengono usati per le cose peggiori” – confida a Federico, suo alunno, diciassettenne di una famiglia palermitana agiata. Degli abitanti di Brancaccio dice che vivono “come possono. C’è chi lavora in nero, se va bene, altrimenti contrabbando di sigarette, spaccio di droga, prostituzione… Molti sono agli arresti domiciliari, altri in carcere. Quasi tutti sono analfabeti, i bambini non vanno a scuola e imparano il lavoro dei genitori, qualunque sia. Il resto lo fa la strada”. Sembrerebbe un inferno, ma 3P ha ben chiaro che l’inferno non è dove, ma come sei: “Togli l’amore e avrai l’inferno… metti l‘amore e avrai ciò che inferno non è”, dice a Federico; e per questo, cioè per strappare dall’inferno chi poteva incontrare, lui stesso ha lottato fino al martirio: “Se nasci all’inferno hai bisogno di vedere almeno un frammento di ciò che inferno non è per concepire che esista altro. Per questo bisogna cominciare dai bambini”.
Un giorno don Pino invita Federico a venire a Brancaccio: potrà così dargli una mano a far giocare i bambini del Centro Padre Nostro. Federico accetta e pian piano – è lui stesso, nel romanzo, a narrare in prima persona le vicende che lo riguardano direttamente – viene travolto e conquistato dalla missione del suo insegnante di religione, fino a decidere di rinunciare al suo soggiorno-studio in Inghilterra (programmato per quell’estate del 1993), ad imbattersi nella diffidenza dei bambini del centro, a subire il furto del suo motorino e pesanti percosse dai nemici di Don Pino. ’U parrinu però non odia nessuno, neppure i mandanti o gli esecutori del delitto che porrà fine alla sua vita, ma non alla sua missione. Morirà infatti col sorriso sulle labbra, dopo avere mostrato a grandi e piccoli amore e dedizione incondizionati.
Le storie delle persone incontrate da 3P e da Federico si intrecciano in uno splendido drammatico arazzo… e sono le più varie e imprevedibili: le avventure del piccolo Francesco e di sua mamma; lo sconforto e le speranze della bambina con la bambola, che vuole raggiungere il papà ‘dove il mare tocca il cielo’ o ‘dove terminano i binari della ferrovia’; l’entusiasmo e la tenacia di Totò, che imparerà a suonare la chitarra di Manfredi, il fratello di Federico; il dramma di Giuseppe, che ruba le autoradio su commissione impostagli dal padre. Tra le giovani e le giovanissime ci sono la mamma di Francesco, che vuole un gran bene al suo bambino; Maria, aiutata in tutti i modi da don Pino perché smetta di prostituirsi; Serena, violentata e resa incinta da un mafioso; l’intraprendente e mite Lucia, regista dello spettacolo preparato per la festa del cinquantaseiesimo compleanno di 3P. Con tutti, ma come a ciascuno si addice, don Pino è amabile e risoluto. A Francesco dice un giorno che la solitudine che ha provato dopo aver preso a calci e ucciso un cane randagio è l’inferno: “l’inferno è tutte le volte che decidi di non amare o non puoi amare”. Poi gli suggerisce di chiedere perdono ‘a Gesù, e poi al cane’. “Francesco racconta del cane, e poi di quella volta che ha sputato al suo amico Antonio , di quando ha dato dei pugni a sua madre, ha rubato la bicicletta, ha bruciato due lucertole e la coda di un gatto, ha tirato le pietre a quelli dell’altra squadra e ha rotto la testa a un bambino”… e don Pino, dopo avergli chiesto ‘solo questo?’: “E io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Conclude poi, davanti allo stupore del bambino che gli chiede ‘Che hai fatto?’: “Io niente. Dio ha cancellato l’inferno. Quelle cose non sono mai esistite, cancellate”.
Federico è un poeta, innamorato del Petrarca, ma poi impererà ad apprezzare maggiormente Dante. La sua vena si esprime in alcuni componimenti (l’ultimo dedicato a Lucia), ma la poesia, nel romanzo, non è solo nei suoi versi, ma anche e soprattutto nelle mille metafore e similitudini che costellano la narrazione di D’Avenia, come quelle del mare, dei pensieri, della notte:
-Oggi il mare brilla così tanto: sembra che il sole gli abbia soffiato dentro
-Ma ci sono pensieri che non pensiamo, sono loro che pensano noi, come le parole delle canzoni che tornano in mente senza averle evocate
-La notte già inchiostra il mare e con calma accarezza l’immenso porto, le cui luci fanno eco alle prime stelle. Sembra che possa accadere qualunque cosa, una creatura uscire da quel liquido nero sotto forma di sirena, di tritone, di mostro marino.
(Gregorio Curto – 2023-09-07)
La storia di Tristano e Isotta / raccontata da Mino Milani.
Le imprese dei cavalieri, che combattono per difendere gli oppressi e ristabilire la giustizia, e nondimeno il canto accompagnato dalla cetra, sono le grandi passioni di Tristano, che viene al mondo in circostanze drammatiche e si imbatte da giovane in una circostanza che decreta irreversibilmente la sua sorte.
Rimasto orfano di entrambi o genitori in tenera età, viene salvato da un servo che lo addestra alle armi facendone un prode cavaliere. Entrato poi al servizio di un suo zio, il Re Marco di Cornovaglia, Tristano si distingue nel duello con un gigante irlandese, chiamato Moroldo, che viene sconfitto. Re Marco ottiene così giustizia, poiché viene dispensato da un ingiusto accordo, che lo costringeva a consegnare come schiave numerose giovani donne al re delle giovani. Moroldo però ha combattuto in modo sleale, avvelenando la sua spada, con la quale ha ferito Tristano durante il duello. Questo spiega perché Tristano si indebolisca sempre più e non si possa veder risanata la sua ferita. Viene però salvato da Isotta dai capelli biondi, una principessa esperte in cure mediche e magiche, che gli dà da bere una pozione che in breve tempo rimette l’eroe in eccellenti condizioni di salute.
Dopo varie vicende l’irlandese Isotta raggiunge il castello di Cornovaglia, scelta dal Re come sua sposa. Si celebrano le nozze accompagnate da grandi festeggiamenti, banchetti e tornei, mentre accade l’evento nodale di tutta la vicenda: una pozione che fa innamorare, destinata in parte a Isotta e in parte al Re Marco, viene per errore bevuta da Tristano. Re Marco rimane all’oscuro di questo fatto, per questo soffre vedendo la sua sposa deperire quando lei si trova lontano dal suo amato; si mostra tuttavia comprensivo, resistendo alle pressioni di quattro baroni del suo regno, che vorrebbero far condannare e giustiziare Tristano, invidiosi del suo valore e del prestigio conferitogli dalle sue gesta.
Allontanatisi dal palazzo di Re Marco, Tristano e Isotta trascorrono diverse stagioni un fitto bosco, messi a dura prova dalla fame e dal freddo. Quando riterranno di doversi separare, potranno mai dimenticarsi l’uno dell’altra? Ad un cero punto della vicenda compare anche un’altra Isotta, detta dalle bianche mani, lei pure molto bella, come la sua omonima dai capelli biondi. Tristano non resta indifferente al suo fascino, ma potrà questo incontro segnare la sua vita, fino ad sopraffare il destino che gli è stato assegnando con la pozione che ha bevuto anni addietro?
Nella storia di Tristano e Isotta c’è tanto amore, puro nelle intenzioni ma sopraffatto da una sorte ineluttabile; c’è anche il valore di chi usa le armi per ristabilire il diritto contro chi vuole offendere e far prepotenze; la cattiveria degli invidiosi, ai quali viene riservata una fine ingloriosa; la bellezza della poesia e del canto, con i quali si celebrano le imprese cavalleresche o si cantano la gioia o la tristezza che procurano le alterne vicende della vita.
(Gregorio Curto – 2022-10-08)
Sull'isola del tesoro. La banda dei cinque
La vicenda ha inizio quando Julian, il fratello Dick e la sorellina Anna apprendono dai genitori che trascorreranno un periodo di vacanza al mare, a Kirrin Bay, presso una famiglia di parenti, costituita dallo zio Quentin, la zia Fanny e la loro figlia Georgina. I ragazzi non si dimostrano in un primo tempo entusiasti di questo programma, specialmente perché ricordano lo zio Quentin come un tipo burbero e severo, che mette soggezione, sempre chiuso nel suo studio a lavorare. Della cugina Georgina sanno che ha undici anni, cioè la stessa età di Dick, un anno in più di Anne e un anno in meno di Julian. Sperano perciò che potranno fare amicizia e giocare con lei, ma in realtà si trovano davanti, almeno al primo impatto, una ragazzina a dir poco originale. É infatti anche lei, come il Padre Quentin, un tipo taciturno e solitario, che ama però la vita all'aria aperta, le attività dei maschi (piuttosto che le bambole e i bei vestiti) e l'avventura. Inoltre non pare affatto contenta di dover trascorrere le sue vacanze con i cugini e fin dal primo incontro con loro precisa che dovranno chiamarla George e non Georgina. La freddezza del primo impatto tra i tre fratelli e la cugina si scioglie però presto quando quest'ultima si rende conto che potrà averli come compagni di avventura, coinvolgendoli in una ispezione dell'ambiente circostante. Già al primo giorno della loro vacanza i ragazzetti vanno tutti insieme al mare e George mostra loro una spiaggia e degli scogli affascinanti, la sua barca a remi, un'isola (anch’essa “sua”) poco distante e totalmente disabitata, in cima alla quale si stagliano le rovine di un castello. La meraviglia e il desiderio di stringere amicizia con la cugina crescono poi in Julian, Dick e Anna, quando questa mostra loro, adagiato sul fondale marino nei pressi dell'isola, il relitto di un vascello di un suo avo, affondato secoli addietro, probabilmente con un bel carico di oro e altri beni preziosi. Il legame si rinsalda inoltre per la simpatia che nei cugini ospitati a Kirrin Bay suscita Tim, il cane al quale George è molto affezionata, ma che non può tenere in casa perché disturberebbe il lavoro di Quentin. Tim è un cane intelligente, coraggioso e intraprendente; per questo a pieno titolo può entrare nel sodalizio dei cugini e costituire con loro la "banda dei cinque".
Ed eccoci finalmente all'inizio dell'avventura. Durante la prima escursione in mare aperto la banda si imbatte in una devastante tempesta, che li costringe a ritardare il loro rientro a casa e li sorprende sollevando il relitto della nave dal fondale marino e scaraventandolo su una spiaggia dell'isola. Ci sarà veramente dell'oro o un tesoro nella nave affondata secoli addietro? E cosa mai nasconderanno le segrete del castello? Subito la banda dei cinque si mette all'opera e tutto sembrerà andare per il meglio fino alla comparsa sulla scena di un manipolo di filibustieri, che vorrebbero togliere alla famiglia di George ciò che legittimamente le spetta. Il finale a lieto fine si può intuire, ma sarà comunque sorprendente, non meno che le rocambolesche e spaventevoli avventure che dovranno affrontare i quattro ragazzi con il loro fidatissimo, coraggioso e abile Tim.
(Gregorio Curto – 2022-09-12)
Maïti - Maïti Girtanner con Guillaume Tabard
“La musica in sé stessa era un atto di resistenza contro lo squallore, la menzogna e la morte”. Di ciò prende coscienza Maiti, nel momento in cui i militari nazisti smascherano la sua collaborazione alla resistenza francese. “Qualche mese più tardi” prosegue “avrei crudelmente scoperto che nonostante la loro impotenza nell’uccidere la musica, i carnefici potevano mutilare i suoi interpreti. Vittoria spietata per loro, crudele per me, ma vittoria solo parziale, malgrado tutto”, perché – e qui ricorda i musicisti da lei più amati – “la Germania non era soltanto Hitler, era anche, e più ancora, Bach e Beethoven. Il primo deformava l’umanità e sarebbe passato; i secondi, che la glorificavano, sarebbero rimasti”.
Il libro è il racconto, redatto in prima persona, della giovinezza di Maiti Girtanner, cittadina svizzera che sceglie di collaborare con gli uomini che organizzano la resistenza francese all’occupazione dell’esercito nazista. Maiti è una ragazza diciannovenne, abile pianista, che attende di completare i suoi studi. Quando trasferisce il suo domicilio in Francia, più precisamente a Bonnes, dove - in una villa chiamata Antica Dimora - vive con un nutrito gruppo di suoi familiari, viene a trovarsi nella condizione di poter nascondere e aiutare parecchi cittadini francesi ricercati dai tedeschi. Rocambolesche sono le fughe di individui, e a volte di intere famiglie, che Maiti accompagna oltre la linea di demarcazione, prendendosi gioco spesso dei soldati tedeschi, ma sempre col cuore in gola e con una gran paura. La giovane Girtanner non teme il confronto con gli ufficiali nazisti, che vengono ad occupare alcune stanza della Antica Dimora e spesso, con un intreccio di astuzie, cortesie e finzioni, ottiene piccoli favori a vantaggio di chi le ha chiesto di essere aiutato. Maiti fa un gran correre con la sua bicicletta, che le consente di portare a compimento missioni delicate, come consegnare documenti segreti o rubare timbri e carte geografiche dagli uffici degli militari nazisti.
La sua attività si fa più intensa quando si trasferisce a Parigi, ma proprio lì viene scoperta, arrestata, trasferita con altri detenuti politici a Hendaye-plage, una cittadina al limite estremo della Francia, prima della frontiera con la Spagna. Qui viene barbaramente percossa e mutilata da spietati aguzzini, comandati da un dottore di nome Leo, tanto che dopo la sua liberazione, avvenuta con un blitz organizzato dall’ambasciata e dalla Croce Rossa svizzere, prenderà presto coscienza di non essere più in grado di suonare il pianoforte. “Alcuni centri nervosi erano stati distrutti e non li avrei mai recuperati” scrive Maiti. “Non c’era dunque da ricostruire ciò che era stato distrutto, come si fa rimontando ad uno ad uno i mattoni di una casa crollata. Era semplicemente questione di costruire su fondamenta nuove, che non avevo scelto io”.
Maiti si rende conto di dover entrare in una “dinamica di abbandono”, potendosi vantare - qui cita San Paolo – non più della sua forza ma della sua debolezza. Rinuncia quindi definitivamente alla carriera artistica ed anche a crearsi una famiglia, quando sceglie – non senza essere passata da un lungo travaglio - di entrare nel terz’ordine domenicano e di esercitare privatamente la professione di insegnante di musica. “Un giorno decisi che non avrei più rimpianto ciò che ero stata o che sarei potuta diventare, ma avrei amato ciò che ero e cercato ciò che avrei dovuto essere. È stato un lungo viaggio, nulla è avvenuto dal giorno alla notte, ma questa è la condizione per una vera redenzione e allo stesso tempo il luogo di ogni battaglia”.
In questo lungo viaggio risalta più di ogni altra tappa il perdono accordato da Maiti al suo aguzzino, il dottore di nome Leo, che la raggiunge nel 1984 con una telefonata. Chiede di incontrarla; lei accetta e si sente dire: “Ho un cancro. L’ho appena saputo. Sono condannato. Il mio medico mi ha detto che non mi restano che sei mesi da vivere… Non ho mai dimenticato ciò che lei disse ai miei altri prigionieri riguardo la morte. Sono sempre rimasto stupito per il clima di speranza che lei aveva instaurato , anche se le vostre prospettive non erano per niente incoraggianti. Adesso ho paura della morte. Desidero capire meglio”. È così che Maiti può perdonare a chi le ha fatto tanto male e dare a lui conforto e speranza. Dopo aver messo Leo di fronte alle sue responsabilità, alla domanda “crede ci sia un posto per persone come me in paradiso?” risponde: “C’è posto per tutti quelli che, qualsiasi sia il peso del loro peccato, accettano di accogliere la misericordia di Dio. È per questo che Cristo ha donato la sua vita per noi. E se è salito fin sulla croce, è proprio perché il prezzo da pagare era elevato. Ma proprio perché Lui è salito fin là, possiamo avere fiducia. Durante il suo ultimo respiro, è a lei personalmente, è a me personalmente che pensava. Mai ha abbandonato l’amore folle che nutre per lei, anche quando lei era il più lontano da Lui”.
Il libro si apre proprio narrando questo incontro e dialogo tra Maiti e Leo, avvenuto nel 1984, quarant’anni dopo la prigionia della giovane pianista, e ricostruisce poi le dense e travagliate vicende della sua giovinezza. Passano poi altri vent’anni, perché maturi in Maiti la consapevolezza dell’utilità di raccontare quanto ha vissuto. Ora – conclude l’anziana signora Girtanner, “la mia vita si dirige verso la fine… A me, abitata dalla fede in Colui che mi ha creata, mi ha sempre guidata e oggi mi attende, non resta che mormorare la preghiera del vecchio Simeone, mentre accoglie in bambin Gesù al tempio di Gerusalemme: Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto a tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”.
(Gregorio Curto – 2022-08-20)
Quell'asino di un bue - testi di Giampiero Pizzol
Divertenti i versi, pregevoli i disegni, originale la trama, spassoso il titolo del volumetto Quell'asino di un bue. Alle parole e alle illustrazioni si aggiungono le musiche, che si possono ascoltare inquadrando con un lettore il codice qr, stampato nella prima pagina di alcuni capitoli. Giampiero Pizzol, Roberto Abbiati e Walter Muto (autori rispettivamente di testo, illustrazioni e musiche) si sono armonicamente "coalizzati" per pubblicare un'opera sul Natale adatta a bambini e ad adulti. Protagonisti, accanto a Gesù, Maria e Giuseppe, un diavolo anticonformista (che non ama l'inferno, né le bugie) e un angioletto sconsolato, che si è sfortunatamente staccato dal gruppo dei suoi pari. Credereste che si incontrano e che possa nascere tra loro persino una simpatia? Grazie a una bacchetta magica che sta alle porte del paradiso vengono trasformati rispettivamente in bue e in asino ed assisteranno in prima fila al più grande spettacolo della storia. Ecco la divertente pagina che narra del loro incontro.
Solitario presso un fosso
stava un alto e bel cipresso,
ai suoi piedi c'era un sasso.
Si sedette lì a ridosso
l'angioletto un po' depresso
con lo sguardo volto in basso.
Ma che succedeva adesso?
Era un sogno?! Ehi, quel sasso
tutto a un tratto si era mosso.
L'angioletto era perplesso:
un sasso che va a spasso
non succede tanto spesso.
Gli sembrava il guscio in fuga
di una vecchia tartaruga!
Ma quel sasso avea per giunta
una coda rossa a punta,
E due corna sul davanti…
Gli bastaron pochi istanti
e poi disse: "Orco cavolo!.
Macché sasso. Questo è un diavolo”.
(Gregorio Curto_2021-12-11)
Il mio viaggio della speranza : dal Senegal all'italia in cerca di fortuna / Mademba Bay
Hanno la freschezza di una narrazione a voce, pronunciata di getto, le parole del volumetto Il mio viaggio della speranza di Bay Mademba. Sessantatré pagine, senza alcuna divisione in capitoli, che si leggono tutte d’un fiato.
L’autore racconta una grande avventura, iniziando con la sua triste condizione di bambino senegalese: “Persi presto il mio babbo; lui aveva quarantadue anni. La mia mamma era molto giovane perché si era sposata a tredici anni, ed aveva nove figli. Io avevo sette anni”. Bay ha la fortuna di poter studiare, ma desidera tanto divenire al più presto un sostegno reale, anche economico, per la sua famiglia. A sedici anni lavora come falegname da un artigiano ed impara a costruire finestre. Dà quello che guadagna alla sorella, che provvede a fare la spesa per tutta la famiglia. “Ma i soldi non bastavano mai,” così il ragazzo si impegna anche a pulire le automobili di un grande parcheggio, sperando di raccogliere qualche mancia. Poi fa il facchino in un porto, dimostrando così grande laboriosità e versatilità. Nasce in lui il desiderio di emigrare, possibilmente in Europa. I primi tentativi non hanno successo. Si imbatte più volte in faccendieri che lo imbrogliano, agenti delle forze dell’ordine corrotti, autorità che lo gettano in carcere.
Ha ventisei anni quando dalla Turchia, raggiunta dopo un’impervia traversata su montagne coperte di neve, inizia il suo viaggio verso l’Italia. Giunto in Grecia su una fragile imbarcazione, viene ospitato in un centro di accoglienza dove ottiene lo stato di rifugiato politico. Ad Atene, dove viene cordialmente ospitato da una cugina, si dà da fare come venditore ambulante di oggetti di artigianato africani. Arrivato in Italia, può riabbracciare due suoi fratelli e stabilirsi a Pontedera; trova qui finalmente un lavoro regolare, quando un suo connazionale gli parla di una cooperativa “dove si possono acquistare libri africani e poi pagarli dopo averli venduti”.
Da questo momento la narrazione cambia tono: Bay inizia a parlare di come avvicina i passanti ai quali propone l’acquisto di un libro, degli incontri fatti in strada per lo più con persone sensibili e ricettive alle sue proposte (ma qualche volta distaccate e ostili), di veri legami di amicizia che si instaurano con dalcuni italiani, di aiuti che gli giungono totalmente inaspettati. Un giorno Davide, uno studente universitario, gli offre un computer. “Pensavo che lui avesse fatto finta e che quella promessa fosse una scusa per andarsene via, invece tre giorni dopo è tornato da me col computer. Ma io non potevo prenderlo perché abito in un paesino a molti chilometri di distanza e non possiedo un’automobile per spostarmi. Lui mi ha proposto: ‘Te lo porto io fino a casa e te lo installo’.” Così si mettono d’accordo, Davide porta il computer a casa di Bay e i due diventano amici. Poi è Bay che, coadiuvato da una sorella, invita a casa sua Davide con la fidanzata… e questa riceve in dono dalle senegalese “ un vestito verde molto bello che in Senegal viene indossato dalle ragazze che sono felici”.
Nel racconto di Bay emergono qua e là i tratti distintivi della sua personalità, in perfetta sintonia con il credo e i valori dei suoi connazionali: la cordialità, l’amicizia, il rispetto dell’altro, una fede religiosa convinta ma mai intollerante. “A me piace il mio lavoro perché amo parlare con la gente, l’essere umano è una cosa che a me piace tanto. L’incontro con l’altro ha un valore soprannaturale, perché è l’incontro con una creatura di Dio, dunque avvicinandosi all’altro con amore, è come avvertire in lui la presenza dell’Onnipotente. Per questo ogni uomo è sacro e non deve mai essere oggetto della violenza”.
(Gregorio Curto_2021-12-12)
Occhi che non vedono - J. A. González Sainz
Un sentiero, che conduce dalla casa situata nel paese al casolare presso l’orto, è il luogo privilegiato per le profonde riflessioni di Felipe Diaz Carrion, protagonista del romanzo. È un luogo anche simbolico, metafora della vita, che è sempre un cammino denso di imprevisti ed asperità, ma diretto a una meta dove chi non si è arreso troverà conforto e pace. Camminando lungo il sentiero Felipe osserva e contempla la natura: raccoglie i semi delle piante, è sorpreso da violenti temporali o infastidito dalla polvere, che si leva come una nube ad offuscare la vista. Poco distante dal casolare, sulla cima del Pedralen, una croce eretta nel 1977 ricorda a Felipe la tragica fine di suo padre, perseguitato ed infine ucciso dai suoi avversari politici.
Il protagonista del romanzo è un onesto lavoratore, sposato alla bella Asun, che le ha dato due figli: il primogenito Juanito e un secondogenito, chiamato (come il padre) Felipe. L’agitato contesto politico della Spagna del secondo Novecento, dilaniata dal terrorismo dell’ETA, non tarda a ripercuotersi nella famiglia Carrion: Felipe Diaz non può che constatare il rapido cambiamento di mentalità e di comportamento prima del suo secondogenito, poi della moglie, che si allontanano da casa, attratti dal miraggio di una giustizia da instaurarsi con la lotta armata. Il dramma della famiglia divisa e di un figlio perduto (atteso pazientemente, come nella parabola del padre misericordioso, ma mai tornato a casa) addolorano profondamente Felipe senior, che nulla può davanti all’insondabile mistero della libertà della persona, sempre aperta all’opzione del male. Felipe junior – questo è chiaro al padre - ha occhi che non vedono la realtà, offuscati dall’ideologia. Invano il padre ammonisce il suo secondogenito, assumendo toni concitati in un dialogo che alla fine non fa che esasperare i contrasti:
Sai che ti dico, che tuo padre sarà anche uno che non sa molte cose e tutto il poveraccio e la nullità che dici tu, ma c’è una cosa che sa ed è questa: che alcune cose sono giuste in questa vita e altre sono ingiuste… Che alcune cose sono verità, verità di quella buona, e altre non sono altro che pure menate e pessime fantasmagorie, e talune sono lecite e altre illecite, tollerabili le une e decisamente intollerabili le altre, come terrorizzare e intimidire e offendere la gente, per non parlare ovviamente di uccidere, uccidere chicchesia.
Dai giornali, con immenso sgomento e dolore, poco dopo Felipe Diaz viene a sapere in un primo tempo del rapimento di un noto economista e delle durissime condizioni nelle quali viene tenuto segregato, in una angusta e fredda cella; poi dell’uccisione da parte dell’ETA (e proprio dalla mano armata del suo Felipe di un professore e di altri due uomini, invisi all’organizzazione terroristica). Il padre è straziato da un dolore immenso che può solo crescere a dismisura, quando egli incontrerà in carcere il figlio assassino e, incapace di rivolgergli la parola, sarà ferito da una raffica di insulti.
Il dramma della libertà della persona, l’impenetrabilità della coscienza dell’individuo, il rischio corso da chi ha la responsabilità di educare: ecco tre elementi nei quali si dibatte Felipe Diaz, mentre ripensa al triste commino del suo primogenito e all’incontro con lui, nel carcere nel quale lo ha visto per l’ultima volta:
Tu te ne sei andato in giro con chi vuoi, gli avrei potuto dire, saprai tu quel che fai; hai visto o ti avranno detto quel che vuoi o quel che hai voluto credere, ma sapere, sapere davvero, quel che si dice sapere che aria tira o sapere il fatto tuo, di questo niente, figlio mio, di questo niente di niente. Provare una preoccupazione autentica o come un minimo sentore di vero tremito verso le persone o le cose, un rispetto anche dinanzi alle parole con le quali si parla delle persone o delle cose, di questo niente… Ci sono molte cose che non vanno a questo mondo, figliolo, avrei dovuto dirgli, molte, e alcune vanno ancor peggio, come diceva tuo nonno, ma possono sempre peggiorare molto di più per quanto vadano già male se le si vuol sistemare da dove è meglio non metter mano, se si vuole prendere un sentiero che si crede sia una meravigliosa scorciatoia e invece risulta non essere né una scorciatoia né un sentiero né porta da nessuna parte se non forse a precipitare prima o poi.
Non ha proprio pace il povero padre ferito, nel prolungarsi della sua riflessione:
Tanto si sarebbe messo a ridere, si diceva, di sicuro si sarebbe messo a ridere, glielo avessi detto quando glielo avessi detto e con il tono che fosse, a ridere e a insultarmi… Vero è che avrebbe potuto chiamare la polizia ai primi segnali, si diceva; ma come può uno accusare il proprio figlio e di cosa agli inizi. Questo ragazzo è un imbecille, avrebbe potuto dire alla guardie, questo ragazzo è un imbecille, ma sarà meglio che non vada più in là e diventi qualcos’altro. Ma come fa uno a denunciare un altro perché imbecille o dire a Dio che tutto questo è grottesco, che non è neppure tragico ma proprio grottesco, un rancore e una sfida stolti e grotteschi?
Dilaniato da questi pensieri, Felipe Diaz viene a trovarsi presso la croce in cima al Pedralen: ha davanti a sé un baratro nel quale potrebbe gettarsi facendo un passo avanti. Potrà però anche scegliere di fare un passo indietro, e poi altri passi indietro, di aprire gli occhi sulla realtà così com’è, tutta intera, dove ha pur sempre un Juanito che gli vuole bene. Il dramma della libertà si gioca proprio per ciascuno fino all’ultimo giorno, in ogni istante della vita.
(Gregorio Curto_2021-12-29)
I confini di Babele / di Andrea Moro ; nota introduttiva di Noam Chomsky
Con il suggestivo titolo I confini di Babele, Andrea Moro si pone il seguente interrogativo: “perché non tutte le grammatiche concepibili sono realizzate?”. Il libro è un approfondito saggio di linguistica, che analizza specialmente le strutture della sintassi comparando diverse lingue, includendo considerazioni sull’origine del linguaggio, sull’apprendimento della lingua madre nei bambini, sulle analisi delle attività cerebrali nei soggetti posti davanti ad un testo che vien dato loro da leggere o da ascoltare.
Centrale il capitolo nel quale l’autore, rifacendosi alle nozioni della grammatica generativo-trasformazionale di Noam Chomsky, analizza la possibilità di modificare l’ordine dei sintagmi di una frase o di ampliare la frase con nuovi sintagmi, considerando se questa mantenga o meno il suo senso e la correttezza grammaticale.
A titolo di esempio si osserva:
Un matematico racconta molte storie (corretta o "grammaticale")
Un matematico raccontano tante storie (scorretta o meglio "agrammaticale")
I ragazzi che conoscono un matematico raccontano tante storie ("grammaticale").
Nell’ambito del confronto tra le lingue il lettore viene a saper che le lingue parlate nel mondo sono un numero compreso tra 6000 e 7000, ma è certamente una stima al ribasso, se si considerano le circa 300 varietà di dialetti italiani. E’ certo d’altra parte che gli idiomi sarebbero molti di più, anzi un numero pressoché infinito, se si dovessero combinare in altrettante parlate tutte le possibili strutture della sintassi. Un’operazione di questo genere condurrebbe alla scoperta di una sorta di tavola di Mendeleev delle lingue. Sorprenderà per altro il linguista non esperto sapere che ci sono delle lingue nel quale il corretto ordine delle parole in una frase è radicalmente diverso da quello che si usa in italiano.
Mara ha detto che Gianni ha visto quella foto
riscritta con lessico italiano e sintassi giapponese (una lingua al di fuori dei confini di Babele), risulterebbe:
Maria Gianni quella foto visto ha detto che ha.
Molto interessanti anche le osservazioni sulle lingue creole, che coniugano i verbi dando sfumature di diverso significato con l’accostamento dei monosillabi bin, go, stay, che esprimono rispettivamente anteriorità, irrealtà e continuità); cosicché avremo:
he walk = egli cammina
he bin walk = egli camminava
he go walk = egli camminerebbe
he stay walk = egli sta camminando
e con ulteriori combinazioni:
he bin go walk = egli avrebbe camminato (anteriorità e continuità
he bin stay walk = egli starebbe camminando (irrealtà e continuità).
In altre pagine Andrea Moro considera l’unicità del linguaggio umano al confronto delle diverse modalità di comunicazione degli animali, basandosi soprattutto sui costrutti sintattici, totalmente estranei anche alle specie animali più evolute; osserva d’altra parte, citando Chomsky, che nell’apprendimento della lingua madre da parte dei bambini si assiste a vari fenomeni che inducono a pensare che “acquisire una lingua è una cosa che a un bambino succede, non una cosa che un bambino fa… Esattamente come a un bambino succede che gli crescano il fegato o i polmoni”.
Per quanto riguarda lo studio delle attività cerebrali connesse al linguaggio l’autore si rifà agli studi di neurologia relativi all’area di Broca rilevata come parte del cervello dove si elabora il linguaggio; considera tuttavia che alla luce di più recenti esperimenti condotti con la tecnica delle neuroimmagini, anche altre aree sono coinvolte nei processi di apprendimento e comunicazione linguistica. Rileva infine quanto molto rimanga ancora da scoprire nell’ambito della natura e dell’evoluzione del linguaggio umano e dei nessi tra linguistica e neurologia. “Se ho dato la sensazione di aver risolto tutto e tutto possa essere compreso - conclude - o peggio, sia stato già compreso, allora avrei sbagliato. Mi sono ormai convinto che il linguaggio è per l’uomo un po’ come la tartaruga per Achille: tutte le volte che ci avviciniamo, lei va avanti di un passo e ci lascia a bocca asciutta. Ma sono così ottimista da pensare che tutti insieme possiamo arrivare così vicino da guardarla dritta negli occhi, la nostra tartaruga”.
(Gregorio Curto - 2021-01-16)
Sempre tornare - Daniele Mencarelli
Scritto in prima persona, con i verbi coniugati al presente indicativo, Sempre tornare è il racconto del viaggio che il diciassettenne Daniele compie da Rimini fino a Roma, precisamente fino all’amata casa dove abita con i genitori, un fratello e una sorella. L'avventura ha inizio il 15 agosto del 1991, dopo una figuraccia che Daniele ritiene di aver fatto alla discoteca Cocoricò: è così amareggiato che decide di staccarsi dai due amici con i quali ha iniziato la vacanza e di tornarsene a casa da solo, in autostop. Il piano si rivela ben presto come dettato da un gesto impulsivo, quando Daniele si accorge di avere lasciato ai suoi amici la carta di identità e le cinquantamila lire che aveva nel portafogli. Il ragazzo però non desiste affatto dal suo proposito: vuole gustarsi una libertà “senza vincoli” e cercare risposte alle domande che si pone chi non vuole condurre un’esistenza banale. Si interroga perciò sul senso della vita, sul perchè del dolore, sull’importanza degli affetti, su dove si trovi e che utilità abbia la bellezza
Il viaggio riserva a Daniele molte sorprese fin dai primi momenti, quando gli diventa ben chiaro che ha assoluto bisogno di aiuto e dovrà perciò chiedere, per di più a persone totalmente sconosciute, di essere soccorso per i suoi bisogni primari: acqua da bere, cibo, un giaciglio (anche molto povero) dove passare la notte. È così che il diciassettenne si imbatte in un ventaglio quanto mai variegato giovani e meno giovani, iniziando da un signore che, dopo avergli dato un passaggio sulla sua automobile, lo invita ad una festa e gli fa conoscere i suoi amici, offrendogli poi una gustosa abbondante cena e una confortevole camera per la notte. Daniele apprezza sempre l’ospitalità che gli viene offerta: quella di chi incontra fugacemente e gli regala solo un bicchiere d’acqua, non meno di quella dei ricchi, che lo accolgono nelle loro case. Incontra così una vasta gamma di tipi umani, che lo fanno riflettere: tra questi ci sono due coniugi, che gli offrono un pasto e un comodo letto, ma si rivelano litigiosi e infelici, come dimostrano chiaramente nell’uccidere spietatamente un gattino che ritengono ingombrante. Altro incontro che fa riflettere Daniele, mettendolo anche alla prova ed offrendogli l’opportunità di essere lui la persona che aiuta, è quello con Manlio, un giovane infelice single, incapace di troncare con un lavoro che non gli piace e lo ha reso un malato di mente, bulimico oltre ogni immaginazione.
L’incontro più gradito (uno dei primi del lungo viaggio) è quello con la giovane Emma, la sola persona che Daniele rivede una seconda volta, alla stazione Termini di Roma. Per lei, in una notte indimenticabile, il giovane autostoppista ha scritto una poesia, che il lettore troverà solo in appendice al romanzo. L’ultimo capitolo del libro, come si può prevedere, racconta del felice ritorno a casa di Daniele, che può godersi la sua casa con una gioia centuplicata ed abbracciare la madre, tenuta fino a quel momento all’oscuro della sua avventura.
Le riflessioni dell’io narrante sono intrecciate al racconto, gli vengono suggerite dalla realtà che si presenta estremamente variegata ai suoi occhi, si trasformano non di rado in preghiera. Sono inoltre costellate di metafore, che rendono il romanzo, nel suo periodare composto di frasi a volte brevissime, una vera poesia. Ecco, ad esempio, uno squarcio della mente e del cuore di Daniele in sosta ad Assisi:
La Porziuncola è tutta qui. È più piccola di casa mia. Un uomo e una chiesa minuscola, di mattoni grezzi. Nessun esercito, nessuna arma. Dittatori vanno e vengono, lasciando solchi di morte, delirando su imperi e primati. Francesco s’è spogliato, ed è rimasto. Lui e la sua devozione per Dio, che ritrovava in ogni essere vivente, dentro ogni atomo di materia. Dal povero all’animale, dal fuoco al sole, sapeva che tutto è rivolto a lui e tutto si deve accogliere. Perchè lui è in tutto.
Più avanti, in una stazione ferroviaria deserta:
Su una panchina di legno concedo al corpo quello che vuole più di ogni cosa. Non esiste tesoro con cui farebbe a cambio. Un po’ di riposo. Ho le braccia che pesano come fossero di piombo, non parliamo delle gambe. Mi allungo sulla seduta, la sensazione è di sprofondarci dentro, come in un pozzo invisibile, senza fine.
E ancora, ormai vicinissimo alla meta:
La bellezza c’entra. È l’ultima alba del mio viaggio. Mi sale di fronte illuminando il profilo dei miei paesi, il palmo di terra dove la mia vita si arrampica, ogni giorno, a mani nude sul crinale della gioia, e spesso cade, ruzzola, ai piedi della disperazione.
Infine a casa:
Resto a distanza. Seduto su un pezzo di muretto, al riparo. Ad adorare la mia casa. A mangiarmela con gli occhi. Per tutta la sua bellezza visibile e invisibile. Perchè è la mia. E di quello che più amo al mondo. Vivrò tutta la vita che verrà con un punto fermo. Ogni viaggio mi riporterà a casa. Lontano da casa, per sempre, morirò. Potrà essere questa che ho di fronte o un’altra, non importa…
(Gregorio Curto - 2022-02-26)
Ti voglio felice - Papa Francesco
Ti voglio felice è una raccolta di interventi di Papa Francesco, tenuti in varie occasioni e in diversi luoghi, rivolti principalmente ai giovani. Vi si trovano pertanto alcune tematiche ricorrenti, ma sempre la freschezza di una parola serena, che non stanca mai, volta a rincuorare e incoraggiare. Tali sono i richiami alla speranza. Il Santo Padre rileva che ci sono tante persone tristi, come quei giovani che, dopo aver sperimentato tante cose, non hanno trovato il senso della vita e cercano il suicidio come soluzione. “Hanno provato tante cose ma la società, che è crudele, non ti può dare speranza. La speranza è come la grazia: non si può comprare, è un dono di Dio. E noi dobbiamo offrire la speranza cristiana con la nostra testimonianza, con la nostra libertà, con la nostra gioia”.
In altre pagine Papa Francesco esorta i giovani a non spegnere il desiderio, precisando che questo non è la voglia del momento, ma la “mancanza della stella” (dal latino de-sidus), cioè la mancanza di un punto di riferimento che orienta il cammino della vita; è perciò “la bussola per capire dove mi trovo e dove sto andando, anzi è la bussola per capire se sto fermo o sto andando: una persona che mai desidera è una persona ferma, forse ammalata, forse morta”. La vita infatti è un cammino al quale non ci può sottrarre, un cammino sempre affascinante, anche quando le asperità lo rendono arduo: “Camminare è l’arte di guardare l’orizzonte, avendo in mente dove io voglio andare, ma anche sopportando la stanchezza del cammino. Molte volte il cammino è difficile… Ma pensate sempre a questo: non abbiate paura dei fallimenti, non abbiate paura delle cadute. Nell’arte di camminare, quello che importa non è non cadere, ma non ‘rimanere caduti’. Rialzarsi e continuare ad andare: questo è camminare umanamente”. A questo proposito il Santo Padre esorta anche a non censurare nulla del proprio passato. “Come trattate – chiede – i fatti e le immagini impressi nei vostri ricordi? Ad alcuni, particolarmente feriti dalle circostanze della vita, verrebbe voglia di ‘resettare’ il proprio passato, di avvalersi del diritto dell’oblio. Ma vorrei ricordarvi che non c’è santo senza passato, né peccatore senza futuro. La perla nasce da una ferita dell’ostrica! Gesù, con il suo amore, può guarire i nostri cuori, trasformando le nostre ferite in autentiche perle”.
Le esortazioni ai giovani si colorano spesso di immagini vivaci, che li inducono a non restare inerti, ma a rischiare: “Non rinunciate al meglio della vostra giovinezza, non osservate la vita dal balcone… Non siate auto parcheggiate, lasciate piuttosto sbocciare i vostri sogni e prendete decisioni. Rischiate, anche se sbaglierete. Non sopravvivete con l’anima anestetizzata e non guardate il mondo come se foste turisti. Fatevi sentire! Scacciate le paure che vi paralizzano, non diventate giovani mummificati. Vivete! Datevi al meglio della vita!”.
Papa Francesco può ben rivolgersi, con la profondità e la semplicità delle sue parole ad ogni giovane a ad ogni uomo, senza dimenticare che la radice della gioia è in Gesù e nel Vangelo, proprio perché seguendo Gesù si compiono i desideri più autentici e più profondi del cuore dell’uomo. Così può dire della gioia che “non si può fermare: deve andare avanti perché è una virtù pellegrina. È un dono che cammina, che cammina sulla strada della vita, che cammina con Gesù: predicare, annunziare Gesù, la gioia, allunga la strada e allarga la strada. Ed è una virtù di quei grandi che sono al di sopra delle pochezze, che sono al di sopra delle piccolezze umane, che guardano sempre all’orizzonte. La gioia è una virtù del cammino”.
Altro tema sviluppato in diversi capitoli del libro è quello del perdono e della misericordia. Papa Francesco rilegge infatti e commenta la parabola del buon samaritano, in altre pagine si sofferma sulle beatitudini e sulle opere di misericordia tratte dal capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo, in altre ancora esorta al perdono: “Ci sono due cose che non si possono separare: il perdono dato e il perdono ricevuto. Tante persone sono in difficoltà, non riescono a perdonare. Tante volte il male ricevuto è così grande che riuscire a perdonare sembra come scalare una montagna altissima”, ma aggiunge “questo fatto della reciprocità della misericordia indica che abbiamo bisogno di rovesciare la prospettiva. Da soli non possiamo, ci vuole la grazia di Dio, dobbiamo chiederla”.
Ogni esortazione del Santo Padre – questo il pensiero dominante di tutto il libro - è imperniata sulla consapevolezza che “Dio vuole per noi il meglio: ci vuole felici. Non si pone limiti e non ci chiede interessi”. Per questo è ragionevole non censurare l’invito a una conversione: “Gesù che è con noi ci invita a cambiare vita. È Lui, con lo Spirito Santo, che semina in noi questa inquietudine, affinché cambiamo vita e diventiamo migliori. Seguiamo questo invito del Signore e non poniamo resistenze, perché solo se ci apriamo alla sua misericordia troviamo la vera vita e la vera gioia”.
(Gregorio Curto – 2023-08-05)
Ciò che non muore mai - Takashi Paolo Nagai
Scritto con lo stile del romanzo (in particolare con i nomi di fantasia Ryukichi e Haruno, attribuiti al protagonista e alla sua consorte), Ciò che non muore mai è in realtà una vera autobiografia del medico giapponese Tagashi Paolo Nagai, che racconta di sé dalla sua infanzia fino al giorno in cui si vide allettato a causa di un tumore contratto in circostanze drammatiche.
Ryukichi cresce immerso nella cultura e nella tradizione giapponesi, educato secondo la religione prevalente tra i suoi connazionali, ma incontra un fervente gruppo di cristiani nipponici, prima ancora di laurearsi, nel quartiere Urakami della città di Nagasaki. Frequentandoli, è affascinato sempre più dal loro stile di vita e si sorprende edificato dalla testimonianza di molti martiri che nei secoli passati, come apprende dai suoi studi e da quanto gli viene narrato, hanno versato il loro sangue pur di non rinnegare la fede.
Conseguita a pieni voti la laurea in medicina, Ryukichi organizza con i compagni di studi una festa, durante la quale prende una grande sbornia; sopraggiungono poi una brutta otite e una meningite, dalle quali il giovane medico si riprende solo dopo un delicato intervento chirurgico e una lunga convalescenza. Questa esperienza lo porta a una profonda riflessione: “Di fronte a una sciagura inattesa, le ambizioni di un uomo, i suoi progetti e i suoi sogni di gloria si possono disperdere nel nulla come un miraggio fugace che non ha consistenza.” Inizia così a pensare che “doveva scegliere uno scopo per la sua vita che fosse indistruttibile, invincibile ed eterno”. Il giovane medico sceglie poi di specializzarsi in radiologia, una disciplina a quel tempo, almeno in Giappone, poco considerata, tanto da non avere un proprio dipartimento.
I capitoli seguenti di Ciò che non muore mai narrano l’impegno del protagonista nella sua professione di radiologo, in un primo tempo al seguito del professor Asakura: un impegno sempre teso sia alla ricerca che alle cure del malato, indomabile nel tentativo di ottenere un riconoscimento adeguato all’utilità delle radiografie nella diagnostica non meno che all’efficacia delle cure con radioterapia. Alternate a questi temi, si dipanano le vicende che coinvolgono Ryukichi come medico soccorritore dei feriti in ben due guerre (dapprima contro il Giappone, poi nel conflitto mondiale, terminato con l’ecatombe delle due bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki). La profonda fede cristiana del protagonista è l’elemento che rende la sua travagliata vita profondamente unita, spronandolo nelle asperità, consolandolo nei rari momenti di riposo, lanciandolo nella missione, come accade nel suo impegno con i Vincenziani. “Al di fuori del porto di Nagasaki – scrive l’autore – nelle isole lungo la costa, si trovavano molti insediamenti di cristiani… I Vincenziani andavano a trovare questa gente la domenica e nei giorni festivi per portare cure mediche, per intrattenere i bambini con le loro storie, per organizzare proiezioni con la lanterna magica, per parlare con i giovani e per distribuire vestirti alle famiglie più povere”.
La lunga narrazione di Ryukichi non si dilunga nel raccontare di Haruno, ma le riconosce un ruolo preminente, fin dal racconto di una notte di Natale, quando il giovane medico si carica sulle spalle la giovane, prostrata per una acuta appendicite, e le salva la vita portandola in ospedale, dove viene operata d’urgenza. Haruno si unisce poi in matrimonio con Ryukichi (avranno tre figli) e gli è vicino come nessun altro, durante le assenze dello sposo impegnato in guerra, con le sue preghiere e con i suoi doni (un maglione, un catechismo). Commoventi le pagine nelle quali i due si rivedono dopo un lungo periodo di separazione: “Sulla banchina i volti delle persone in attesa erano allineati come pomi nella vetrina di un fruttivendolo: mele, pere, mandarini… Ryukichi lanciò uno sguardo tra quelle centinaia di volti colorati e riconobbe subito quello di Haruno. Erano quattro anni che non lo vedeva ma non lo aveva dimenticato. Fu sorpreso di averla individuata così, a colpo d’occhio. Haruno portava in volto i segni della fatica della vita. Lungo tutta la sua assenza, aveva lavorato in una scuola femminile insegnando cucito e aveva mantenuto la famiglia con il suo salario”.
Il 9 agosto del 1945, quando Nagasaki è distrutta dalla bomba atomica, Ryukichi scampa alla morte, ma ha già i mesi contati, essendogli stato diagnosticato poco prima un tumore, contratto con gli stressanti ritmi di lavoro, che lo hanno esposto smisuratamente ai raggi X. Tra le vittime dell’atomica c’è invece la sua fedelissimo sposa, ridotta a un mucchio di cenere, ma inequivocabilmente identificata grazie a una catena del rosario rinvenuta tra le ossa bruciate. Bruciati erano pure i frutti del suo paziente lavoro di ricercatore e di radiologo.
L’infaticabile medico inizia così a vivere da disabile, progressivamente impedito nei movimenti e nella parola, ma con una grande certezza e un cuore lieto: “Tutta una vita per della cenere! Non poteva sopportare una vita senza senso. Doveva trovare ciò che non perisce. Doveva aggrapparsi a ciò che non muore mai… Aveva compreso che ciò che oltrepassa il tempo e lo spazio e rimane per sempre è la Parola di Gesù Cristo che è Dio… La vita dello spirito: è questa la vera vita che un uomo deve vivere… In una piccola capanna nel mezzo della landa atomica spazzata dal vento, con due bambini piccoli tra le braccia e il corpo che non può più muovere come vorrebbe, Ryukichi ora conduce la sua vita nel fulgore”.
(Gregorio Curto – 2023-07-15)
Vita di Gesù - Andrea Tornielli
“Molti di quelli che stavano con Gesù rimproveravano Bartimeo perché tacesse. Per questi discepoli il bisognoso era un disturbo sul cammino, un imprevisto nel programma stabilito. Preferivano i loro templi a quelli del Maestro, le loro parole all’ascolto degli altri: seguivano Gesù, ma avevano in mente i loro progetti… Per Gesù, invece, il grido di chi chiede aiuto non è un disturbo che intralcia il cammino, ma una domanda vitale… Guardiamo Gesù, che non delega qualcuno della ‘molta folla’ che lo seguiva, ma incontra Bartimeo in persona. Gli dice: ‘Che cosa vuoi che io faccia per te?’. ‘Che cosa vuoi’: Gesù si immedesima in Bartimeo, non prescinde dalle sue attese; che io faccia: fare, non solo parlare; per te: non secondo idee prefissate per chiunque, ma per te, nella tua situazione. Ecco come fa Dio, coinvolgendosi in prima persona con un amore di predilezione per ciascuno. Nel suo modo di fare già passa il suo messaggio: così la fede germoglia nella vita”.
Le riflessioni di Papa Francesco sulla guarigione miracolosa del cieco Bartimeo, insieme ai commenti ad altri passi evangelici, sono contenute nella Vita di Gesù di Andrea Tornielli, un volume nel quale l’autore ripercorre la vita dell’Uomo-Dio riportando ampi brani dei quattro autori canonici disposti in un rigoroso ordine cronologico. Ecco perciò collocati nell’anno 6 a. C., all’inizio del percorso, l’annuncio a Maria, la decisione di Giuseppe e il viaggio da Elisabetta, ai quali seguono, nel secondo capitolo del libro, il viaggio per i censimento, la nascita a Betlemme, l’adorazione dei pastori, la presentazione di Gesù al Tempio… fino al capitolo finale: Dalla Galilea al mondo. Anno 30 d. D, aprile-maggio. Dove gli autori sacri lasciano spazio ad integrazioni, Tornielli interviene indagando su diversi personaggi della vicenda, dei quali offre un suggestivo ritratto, come accade ad esempio per Pilato e la moglie Claudia.
“Quella notte aveva dormito male e l’aveva trascorsa in preda agli incubi. Claudia Procula, moglie di Ponzio Pilato, era una donna romana di poche parole. La sua grande intelligenza e la sua profonda umanità l’avevano resa un’insostituibile consigliera del marito divenuto il più alto rappresentante del potere di Cesare in questa sperduta e riottosa provincia dell’Impero romano. Era una donna minuta, dai lineamenti eleganti, che non amava le apparenze né i posti d’onore. Viveva volentieri nel palazzo di Cesarea Marittima e non accompagnava di buon grado Ponzio Pilato a Gerusalemme… Lui, il governatore romano, era un uomo tarchiato, dai modi spicci, capace organizzatore, inflessibile. Sapeva essere anche spietato. Amava leggere e studiare ed era uno stratega riconosciuto. Non era facile decifrare sul suo volto emozioni e pensieri. Il suo sguardo incuteva timore. Da anni l’imperatore si fidava di lui e della sua capacità di soggiogare il popolo d’Israele, anche se Pilato aveva dovuto far fronte all’influenza crescente che il tetrarca di Galilea, Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, aveva a poco a poco conquistato presso la famiglia imperiale”.
Ad altri personaggi della sua Vita di Gesù Tornielli assegna un nome proprio, ampliando anche in questo caso il racconto degli evangelisti: così accade per Issachar (il “cieco nato” di Giovanni 9,1 ss.9) e per Ismaele, dal cui figlio Lot Gesù caccia uno spirito malvagio che si era impossessato di lui.
In più punti viene messa in risalto la natura della missione di Gesù, volta a cambiare i cuori di chi incontra il Maestro o i suoi discepoli, non a una azione politica, che possa liberare Israele dagli oppressori Romani. Gesù stesso svela questo progressivamente, accompagnando il cammino i suoi discepoli: tra i quali si notano pescatori ed esattori delle tasse, zeloti disposti a cambiare o, al contrario, irriducibili come Giuda Iscariota; e ancora testardi resistenti, ma poi progressivamente sinceramente convertiti al disegno divino, come Simon Pietro.
La missione non è così legata al “successo”. Per questo quando i settantadue discepoli tornano dicendo “Signore, anche di demoni si sottomettono a noi nel tuo nome”, Gesù li ammonisce: “Non rallegratevi … perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”. E Papa Francesco commenta: “La missione si basa sulla preghiera; che è itinerante, che richiede distacco e povertà… che non è proselitismo ma annuncio e testimonianza… La missione della Chiesa sarà caratterizzata dalla gioia… non si tratta di una gioia effimera, che scaturisce dal successo della missione; al contrario, è una gioia radicata nella promessa che – dice Gesù – ‘i vostri nomi sono scritti nei cieli’. Con questa espressione Egli intende la gioia interiore, la gioia indistruttibile che nasce dalla consapevolezza di essere chiamati da Dio a seguire il suo Figlio”.
I diversi contributi al libro di quelli che si possono a ragione considerare suoi autori (Andrea Tornielli, i quattro evangelisti, Papa Francesco) sono distinti da un diverso carattere grafico, che per libri sacri il corsivo, per i contributi del Santo Padre un tondo ridotto, con margini più larghi.
(Gregorio Curto – 2023-06-10)
Lupo siberiano / Alver Metalli
Debora Dos Santos è una ragazzina di quindici anni, che vive a Manaus, nel cuore della foresta amazzonica, con i suoi genitori e una domestica. La famiglia vive agiatamente: la casa è ampia con intorno un bel giardino, papà e mamma sono intraprendenti e pazienti, specialmente con la loro figlia, che si dimostra invece incontentabile e capricciosa. Un giorno, mentre osserva in un programma televisivo un lupo siberiano scorrazzare nella neve fresca, Debora lancia infatti un urlo (“lo voglio!”) manifestando un acceso desiderio - in verità una pretenzioso capriccio -, che i genitori faranno di tutto per esaudire. Inizia così un lungo percorso, che porta la famiglia Dos Santos a consultare prima un veterinario, poi un commerciante, importatore delle più svariate merci e specie animali. Finalmente il lupo siberiano arriva a Manaus con i bagagli di un aeroplano partito dalla Russia: ha i genitori dell’epoca delle perestroika, è stato concepito negli anni delle riforme di Elstin ed è nato nel regime di Putin. Debora decide di chiamarlo Totò.
È facile immaginare quanto a disagio si troverà l’animale siberiano nel clima caldissimo di una zona equatoriale. L’ostinata Debora non vuole però recedere dai suoi capricci, neppure quando vede che “Totò rincorreva la pallina di gomma senza l’entusiasmo del cucciolo, si strofinava sull’erba svogliatamente, rispondeva alle carezze con mestizia, si nutriva senza la voracità della sua razza”. Per contro la ragazzina lo porta a spasso tenendolo al guinzaglio e non esita a strattonalo, quando il lupo si attarda, affaticato. Basteranno a salvare Totò i diversi altri accorgimenti che gli si vorranno riservare? Papà e mamma Dos Santos non esiteranno a venire incontro ai capricci della loro figlia, provvedendo il loro giardino prima di una piscina con acqua e ghiaccio, poi di un gigantesco ventilatore a pale… in una estate particolarmente calda anche per Manaus, da emergenza climatica e conseguente carenza di energia elettrica. Il finale è a sorpresa con un elemento che lo fa sconfinare nel grottesco.
Lupo siberiano è un romanzo breve, che troveranno piacevole ed edificante specialmente gli adolescenti e i giovani; una lettura che insegna a non essere presuntuosi e ad aver cura dell’ambiente, lasciando anzitutto ogni essere vivente nel suo habitat naturale.
(Gregorio Curto – 2023-06-09)